La Stampa, 30 novembre 2022
Intervista a Gustavo Zagrebelsky. Parla della scuola e del merito
Nel mezzo di questa intervista, Gustavo Zagrebelsky va verso una delle molte librerie di casa, prende una copia sgualcita dei Fratelli Karamazov e cerca avidamente il passaggio in cui Grushen’ka manda il suo ultimo messaggio a Dmitrij. È mutuato dalle parole di Dostoevskij, il finale de La lezione: «Un’ora sola, un’oretta d’amore che la scuola ti ha dato e che tu hai ricevuto, può essere tenuto a mente e valere per tutta la vita che resta».
Prima di essere un giurista, uno studioso, un costituzionalista, Zagrebelsky è un insegnante. Lo è stato all’università, tuttora va nelle scuole a parlare di Costituzione e diritti. Con un’idea di lezione, di aula, di scuola, che – com’è evidente in questo libro appena uscito per Einaudi – è un pensiero puro sulla democrazia. E confligge con le parole d’ordine che piovono dal governo: il merito che diventa esclusione, l’umiliazione scambiata per umiltà, le scelte scolastiche da compiere in base alle necessità del mercato. «Chi dice cose di questo genere – sostiene il professore prendendo spunto da certe ultime dichiarazioni di chi sta al vertice del delicatissimo Ministero che una volta si chiamava della Pubblica Istruzione – è o è stato probabilmente uno di quei professori che quando entrano in aula si sentono a disagio. Sono quelli che non amano stare con i ragazzi, guardarli, scoprirli. A differenza di chi, quando entra in classe, dice: “Che bello!"».
E magari quando suona la campanella esclama: «Oh noo». E sente esclamare lo stesso dall’altro lato della cattedra, come scrive quando lei parla delle lezioni riuscite.
«Credo che nei concorsi pubblici per l’insegnamento, piuttosto che chiedere quanti elefanti aveva Annibale nella battaglia di Canne o quante sconfitte abbia subito Napoleone Bonaparte, bisognerebbe domandare: ma tu, coi ragazzi, ti trovi bene? Perché se non è così, la scuola, l’università, non sono il posto giusto per te».
Qual è la ricetta della lezione perfetta?
«Devi avere in testa l’oggetto della tua spiegazione e poi, per tutto il tempo, girarci intorno. Ma non da solo. Chi ascolta deve compiere con te questa passeggiata, come la chiamava Pavel Florenskij. Si cammina insieme, uno vede qualcosa, un altro un’altra, si torna indietro, si guarda da una prospettiva diversa, si scava. Il bello dello scavare nelle cose del pensiero è che non c’è un fondo, un punto d’arrivo. Puoi sempre spostare lo sguardo, andare oltre. È un lavoro entusiasmante. La produzione di idee è una grande gioia cui non può attingere chi sa troppo».
Il rischio dell’erudizione?
«Non sapere troppo è la premessa della creatività. Chi sa tutto, lo dicevano sia Nietzsche che Thomas Mann, non ha più curiosità per niente. Il compito di chi insegna è suscitare interesse prima ancora che comunicare conoscenza. Invece, quanti sono i professori che piacciono al Ministero i quali, davanti allo studente che in classe, durante la lezione, bofonchia o parla col compagno, dicono “Stai zitto”, se non anche “Vai fuori!”? E invece, quel che bisognerebbe fare è chiedere: qual è il problema? Dillo anche a noi. Perché la lezione è di tutti e, tantomeno, di “uno contro tutti"».
L’idea dei lavori socialmente utili da imporre ai bulli la lascia perplesso?
«Se nella scuola entra la violenza, fisica o psicologica che sia, siamo davanti a un fallimento radicale della sua missione. Non si tratta di pensare a singole punizioni quanto di creare le condizioni perché non accada mai più. E questo non si realizza con l’umiliazione né tanto meno mandando il bullo da solo quattro ore in biblioteca come, incredibilmente, ho sentito proporre. Non è alimentando la rabbia di un ragazzo, che si risolve il problema: al contrario».
Lei scrive che negli anni abbiamo fatto dei passi avanti rispetto a quando si vedeva «la scuola come costrizione, il maestro come sorvegliante e talora vessatore». «E invece, le idee che ho sentito in questi giorni riportano proprio a quel modello antico, superato, inutile».
È un rischio anche il mito dell’eccellenza? Quando accenna al film L’onda, dopo aver demolito L’attimo fuggente perché vede nel professore incantatore un esercizio di narcisismo e manipolazione, parla del «rischio della scuola quando si ripromette di allevare i propri studenti nel mito dell’eccellenza che isola, insuperbisce, ma alla fine conduce al disastro».
«Se è vista come virtù singolare, individuale, l’eccellenza può essere l’inizio di molte cose brutte. Nelle facoltà di giurisprudenza c’è molta competitività, ma io dicevo ai miei studenti: non dovete puntare al 30 e lode, che significa sapere anche le note a pie’ di pagina. Puntate al 27. Diciamo la verità, gli studenti che fanno a gara per farsi notare, quelli che vengono all’orario di ricevimento senza aver niente da dire ma solo per apparire più presenti, più studiosi, sono insopportabili».
Se continua così le diranno che vuole mortificare il merito. Infrange le linee guida del tempo nuovo.
«Mi hanno raccontato che alla Normale di Pisa la competitività è arrivata al punto che quando si ha un collega di corso rivale cui viene affidata una particolare ricerca, si va in biblioteca a sottrarre i libri che potrebbero servirgli. È questa, l’eccellenza? Io credo che non lo sia, che eccellere significhi puntare alla crescita della classe, non del singolo».
E come si fa?
«Nella sua vita un insegnante è molto spesso, quasi sempre, di fronte a un bivio. Ha in classe una quota di bravi e una di non bravi, per le più varie ragioni. Cosa deve fare? Ripetere le stesse cose cento volte con i primi che cominciano a stufarsi per tirare su quelli non bravi? Oppure sacrificare quelli che hanno meno capacità lasciandoli indietro per andare oltre e far avanzare un pezzo di classe, l’avanguardia potremmo dire?».
È un dilemma risolvibile?
«Non con una regola precisa. Non c’è una risposta generale e astratta. Ma un insegnante consapevole delle proprie responsabilità troverà un modo che passa, io credo, dal far capire ai più capaci che sono loro a doversi far carico degli altri. Superando l’atteggiamento egoistico di chi vuole primeggiare e dedicando molte energie ai meno bravi. Ecco, gli insegnanti che riescono a fare questo sono quelli che in classe stanno bene».
Quindi porre il merito al centro della formazione è un modo strabico di guardare ai problemi della scuola?
«Una cosa è il merito, un’altra la meritocrazia. Perché il merito più che al potere – kratos – dovrebbe essere collegato alla responsabilità. Il tuo merito deriva da quel che la scuola ti ha offerto, quindi ora devi restituire».
Non mi pare l’idea che va per la maggiore nel governo e anche in un pezzo di centrosinistra.
«Certo, perché l’idea dominante è passare sopra la testa degli altri, fare carriera. Vedo genitori che si affannano a cercare per i figli le scuole inglesi, il master in finanza internazionale. Ma dico: poveri ragazzi! Programmati per il successo, come la monaca di Monza lo era per diventare suora. Dove va a finire la loro libertà?».
La scuola italiana è pubblica. Qualcuno in modo spregiativo dice: di massa. Lei scrive, di tutti. Eppure ha tratti di elitarismo, esclusione sociale, segregazione dei meno bravi. Com’è possibile?
«La formazione delle classi è un atto politico che dovrebbe essere discusso da tutti, non affidato a criteri irrazionali come l’indirizzo di casa o le pressioni dei genitori influenti. La Stampa ha usato, citando Primo Levi, l’espressione I sommersi e i salvati quando si consumava quella scelta terribile sul molo di Catania, tra chi salvare e chi no, senza rendersi conto – spero – che si stava operando una selezione come quando arrivavano i “trasporti” ai campi di concentramento. Ecco, anche nella scuola mi pare ci siano i sommersi, quelli che hanno meno strumenti e più difficoltà; i salvati perché più studiosi, fortunati o furbi; e poi una vasta area grigia».
Cosa vede nella zona grigia?
«Vedo apatia. E questo mi fa paura. Se pialliamo gli studenti riempendoli di nozioni, uccidiamo la loro creatività e non ci rendiamo conto del danno che facciano alla società tutta intera».
Lei, eresia o utopia, propone anche di abolire i voti. E forse anche l’interrogazione vista, con un po’ di sadismo, come interrogatorio.
«L’esame deve servire a controllare la preparazione di base, il terreno minimo per fare un discorso sull’argomento in questione, la capacità di articolare un pensiero autonomo. Il resto non serve. Io nei miei ultimi anni di insegnamento distribuivo solo 30. I miei amici mi chiedevano: ma come? E io: ma non sapete quanti ne ho mandati indietro perché tornassero più preparati sulle basi!».
Il contrario dell’umiliazione.
«Esattamente. Ma le idee che circolano oggi, in tempi di restaurazione dell’autorità quale che sia, viene da chi pensa che la scuola, la classe, gli studenti, gli insegnanti, siano una cosa morta. Da plasmare, manipolare, rendere uniforme. Altri, fortunatamente, pensano che la scuola sia e debba essere una cosa viva. L’incontro con la realtà viene prima di qualsiasi dogma, di qualsiasi assioma pedagogico, di qualsiasi circolare o linea-guida ministeriale».
Questa politica parla di ragazzi, di studenti, come qualcosa da correggere, raddrizzare, redimere.
«Esattamente. Ed è grave quando questo tipo di messaggio arriva non tanto dal mondo della scuola, ma dall’alto, dal ministro. A me le riforme della scuola sono sempre interessate poco. Perché se vuoi migliorare devi partire dall’esperienza. Ci sono tante energie che andrebbero scoperte, sollecitate. La lezione è il momento principe. Può e deve essere un’ora d’amore appassionato per la conoscenza che, se hai incontrato una volta, potrebbe accompagnarti per tutta la vita». —