Il Libraio, 29 novembre 2022
Intervista al cardinale Ravasi: «Gli atei non sono più quelli di una volta»
Agli indifferenti preferisce gli atei veri, “anche se purtroppo”, ammette, “si sono quasi estinti”. Quando dice che la Chiesa ha bisogno di un linguaggio nuovo “senza spegnere il contenuto”, sembra predicare nel deserto. L’hanno definito un “formidabile predicatore cristiano, un Bernardino da Siena, un Paolo Segneri, un Boussuet in versione moderna e mite”.
Per sé, però, preferisce un’altra definizione: methòrios, ovvero “colui che sta alla frontiera”: “Un aggettivo greco“, spiega, “usato nella classicità per indicare il sapiente e coniato da Filone di Alessandria, un tipico ebreo che scriveva però in greco e dialogava col platonismo. L’uomo di cultura cristiano deve stare alla frontiera, i piedi ben piantati sul proprio terreno, quello della fede, ma continuando a guardare ciò che sta al di là”.
Per enumerare tutti gli incarichi e i libri scritti dal cardinale Gianfranco Ravasi non basterebbero due cartelle: biblista, teologo, ebraista, dal 1989 al 2007 Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, poi presidente del Pontificio Consiglio della Cultura dal 2007 fino a pochi mesi fa.
Per cinque lustri ha portato le Scritture ogni domenica mattina nel tinello di casa degli italiani in quella che Aldo Grasso definì “l’ultima oasi nel deserto della tv”.
Un divulgatore appassionato che ogni giorno cinguetta su Twitter, cita i testi delle canzoni, dai rapper a Sanremo ai concorrenti di X Factor, interloquisce con chi non crede, risultando perfettamente in linea con il motto scelto per la nomina episcopale, Praedica Verbum, (Annuncia la Parola), motto suggeritogli da Massimo Cacciari.
L’occasione per chiacchierare con il cardinale Ravasi è Breve storia dell’anima, libro pubblicato dal Saggiatore nel quale, dalla civiltà classica a quella cristiana, muovendosi tra il mito, la filosofia, la teologia e le neuroscienze, conduce il lettore in un percorso avvincente.
Eminenza, non è demodé un libro sull’anima, oggi?
“È quasi una provocazione”.
Perché?
“La vita contemporanea, così frenetica e legata alla tecnica e a meccanismi che sono soprattutto esteriori, non sente il bisogno di riflettere su una categoria che, al di là di come è stata concepita dal pensiero di tutti i tempi, è pur sempre la scoperta dell’interiorità e un’esplorazione nel profondo della coscienza. Non mi stupisce affatto che, sulle prime, questo libro sia considerato eccentrico, antiquato, quasi sorpassato”.
Attorno a questo tema lei convoca numerosi pensatori. Il primo, sorprendentemente, è Pier Paolo Pasolini.
“Siamo in un mondo che ha smarrito l’anima e non se ne duole, né tanto meno si preoccupa di riconquistarla. Casomai, è il corpo a dettare legge, come sosteneva proprio Pasolini nella Supplica a mia madre, una poesia riproposta nell’anno della sua tragica scomparsa, il 1975, anche se antecedente: ‘Ho un’infinita fame / d’amore, d’amore di corpi senz’anima’. Questi versi rappresentano esattamente l’approccio della sessualità contemporanea”.
Dal presente al passato, setacciando ogni epoca.
“L’anima è una sorta di basso continuo, un filo d’oro ininterrotto di tutta la cultura, non solo occidentale. Ho voluto concepire il libro come un viaggio che comincia dalle forme primigenie e archetipiche, passa dalla sorgente classica, il pensiero greco e in particolare Platone, continua con quella biblica, fino all’elaborazione complessa e complicata da parte della teologia e della filosofia”.
Complicata perché?
“Entrambe hanno dovuto parlare di una realtà fondamentale per l’umano, ma che non può essere rappresentata immediatamente a livello fenomenico ed esteriore».
Poi c’è l’anima poetica.
“Il vertice è Dante, con il suo viaggio tra le anime della Commedia. L’ultima tappa è quella delle neuroscienze, che non è un approdo definitivo, ma uno scalo provvisorio. Oggi si tende a identificare l’anima neuronale con il cervello, ma su questo punto c’è un ampio dibattito, su come queste due realtà siano certamente connesse, ma al tempo stesso distinte”.
Perché gli atei veri non esistono più?
“Interessarsi dell’anima o di Dio è una forma di provocazione per il nostro tempo, nel quale non c’è una negazione radicale, strutturale, cosciente e coerente di Dio. Pensiamo a cos’è stata la negazione di Dio nell’ateismo classico, in quello marxista o in Nietzsche. Tutte forme molto nobili, elaborate, che interpellano la teologia e la sfidano. Per secoli è stato questo il modo d’interloquire tra spiritualità e negazione. Oggi, invece, domina l’apatia, che trascolora in quello che definisco apateismo, la cifra costitutiva del presente”.
In che cosa consiste?
“Considerare l’esistenza o meno di Dio come una questione del tutto secondaria. La superficialità, la banalità, la volgarità, anche della comunicazione, non ammettono questi salti verso l’alto. È come una polvere diffusa che si posa ovunque e sporca tutto”.
Come si può combattere?
“Diventando spina nel fianco. La filosofia, le religioni, la cultura devono spingere gli uomini a interrogarsi se non immediatamente su Dio almeno sul senso della vita. Una volta il sociologo canadese Charles Taylor, l’autore de L’età secolare, mi disse: ‘Se oggi arrivasse Cristo in piazza e cominciasse ad annunciare la sua Parola – che era fuoco vero – cosa accadrebbe? Al massimo gli chiederebbero i documenti’. Di recente sono stato all’Università Ca’ Foscari di Venezia a un convegno dedicato a figure del Novecento che hanno inquietato e appassionato: David Turoldo, Pier Paolo Pasolini, Ernesto Balducci. Figure che oggi mancano e che, se ci fossero, non troverebbero ascolto, ma solo una coltre di nebbia, un muro di gomma. Indifferenza e superficialità sono la stessa cosa. Il grande filosofo danese Søren Kierkegaard già nell’Ottocento diceva: ‘La nave è in mano al cuoco di bordo. E ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani’”.
Di fronte a questo scenario c’è chi, anche nel mondo cattolico, vagheggia un ritiro dal mondo.
“Ci sono due tentazioni. La prima è quella del ritiro, della serie ‘il mondo è sotto il vessillo del Maligno. Noi siamo i puri, ignoriamo gli altri. Ci riuniamo ancora per le nostre celebrazioni, ma definiamo il nostro perimetro confinandolo in una sorta di oasi sacrale’. Certi movimenti fondamentalisti, anche cattolici, vanno in questa direzione. La seconda tentazione che domina è il contrario, ed è figlia dell’indifferenza e della superficialità: il sincretismo. Ossia, un po’ di religione non fa mai male, va bene sempre, è come la mentuccia d’orto da mettere su tutto. È la religiosità vaga e vacua che mischia messaggio e massaggio, yoga e yogurt”.
Lei cosa propone?
“Bisogna, da un lato, essere pronti a riprendere il dialogo, entrando in questo mondo come minoranza, senza farci illusioni. In passato la politica, la sessualità e l’etica erano dominate dalla religione, e ora sono tutte laiche. In questo senso, è esemplare l’esperienza del cristianesimo delle origini: partito come una sorta di scintilla, si è diffuso in tutto il mondo, grazie anche ad annunciatori ardimentosi e impavidi come San Paolo. Dall’altro, bisogna tornare ai grandi valori e alle radici. Pensare di ‘conquistare’ questo mondo abbassando il livello non è la strada giusta. Questa, ad esempio, è stata la tentazione delle chiese protestanti, che hanno concesso molto, soprattutto nel campo della sessualità, perdendo alla fine autorevolezza e anche molti fedeli”.
Sì, ma come si fa a dialogare senza abbassare il livello?
“La forza e la fiducia nella forza del Vangelo, che significa ‘buona notizia’, e dei grandi valori vanno ribaditi in maniera decisa e pura con un linguaggio adatto e in sintonia con il nostro tempo, che non sia soltanto esoterico e oracolare. Papa Francesco è significativo su questo punto, perché ha affrontato il tema della società e della convivenza umana, nell’enciclica Fratelli tutti, dell’ecologia integrale, nella Laudato si’, e i problemi economici, mostrando che questi hanno un loro radice alta nel grande messaggio del Vangelo. E ha suscitato molteplici reazioni, anche di contestazione, a dimostrazione che la spina nel fianco, quando è autentica, non necessariamente è perdente, come accade nell’attenzione che suscita”.
Lei andrebbe a cena più volentieri con un “apateista” o con un profeta di sventura, che predica il ritiro dal mondo?
“Temo che il secondo non m’inviterebbe neanche perché, come tutti i fanatici – e ce ne sono tanti anche nel mondo cattolico – non avrebbe interesse a dialogare, avendomi già scomunicato. Invece, quando incontro qualche ‘apateista’, vedo che si sforza di interloquire con me. Forse la mia persona è per lui uno stimolo a fare bella figura. È difficile che incontri persone completamente banali, o che parlano solo per frasi fatte e luoghi comuni”.
Gesù non ha scritto nulla, se non una sola volta sulla sabbia di fronte all’adultera che i farisei volevano lapidare. Oggi, se tornasse sulla terra, cosa scriverebbe?
“Cristo ha già usato modi di comunicazione che sono anche i più diffusi e incisivi del nostro tempo. Pensiamo ai loghia, frasi brevi per dire una verità e fare un annuncio radicale: ‘Rendete a Cesare quel che è di Cesare, rendete a Dio quel che è di Dio’: in greco, con gli spazi, sono cinquantadue caratteri, pochi rispetto ai duecentottanta oggi possibili per un tweet! Eppure questa frase, è stata per secoli fonte di discussione sul rapporto tra fede e politica. L’informatica, i social, la posta elettronica, internet non sono una tecnica, ma un ambiente globale, dove ormai viviamo tutti”.
Qual è lo stile migliore per comunicare?
“L’essenzialità. Cristo nel Vangelo è capace di trovare le parole che mordono e di farle visualizzare a chi lo ascolta. Noi oggi siamo nella civiltà dell’immagine e Gesù già utilizzava le parabole che sono racconti visivi. Oggi una parabola letta in chiesa attira molto più l’attenzione dei fedeli rispetto, ad esempio, al linguaggio sofisticato di Paolo. Per utilizzare una celebre espressione del mio amico Umberto Eco, sulla comunicazione Gesù oggi non sarebbe né apocalittico né integrato. Utilizzerebbe i social, ma senza obbedire alle leggi imposte dalle grandi corporation, né adeguandosi allo stile aggressivo oggi in voga”.
Lei twitta spesso.
“Due volte al giorno. La mattina, di solito, una citazione biblica, la sera un autore, anche non credente. Mi aiuta Giulia, un giovane madre di 30 anni che lavora al Cortile dei Gentili, con la quale mi confronto sui temi e il linguaggio da utilizzare. Per stare sui social occorre conoscere una nuova grammatica”.
Non ha paura degli haters?
“No. In passato, c’erano quelli che ribattevano in maniera polemica e aggressiva a ogni mia affermazione. Adesso ho adottato un nuovo sistema, meno assertivo e più dialogante e, se vogliamo, provocatorio. Cito la frase di un autore, ad esempio quella di Voltaire sul caso, e poi chiedo se gli utenti sono d’accordo o meno. Una volta ho chiesto anche suggerimenti sui libri da leggere”.
Un po’ arduo dare a lei consigli di lettura, non trova?
“Mi hanno scritto in duecento”.
TikTok, il social delle nuove generazioni, la intriga?
“Lo conosco molto poco, non l’ho ancora provato. Da quando ho compiuto 80 anni (il 18 ottobre scorso, ndr) e sono andato in ‘pensione’ dagli incarichi in Vaticano, lavoro più di prima. Ho una media di tre inviti al giorno. Volevo dedicarmi con più calma agli studi, a leggere i classici, e invece solo questo mese sono stato a Venegono, Cracovia, Venezia, Vienna, poi a Milano, dove ho ricevuto la laurea honoris causa all’Università Cattolica e tenuto la prolusione per l’apertura dell’anno accademico, infine a Roma per un incontro del Cortile dei gentili sull’intelligenza artificiale e a Lione”.
Quanti libri legge all’anno?
“Non li conto. Tendenzialmente due in contemporanea, un saggio e un romanzo. Adesso sto leggendo quello dello scrittore Jón Kalman Stefánsson edito da Iperborea che ha un titolo bellissimo: La tua assenza è tenebra, tratto da una frase che lo scrittore ha trovato sulla lapide in uno sperduto cimitero dell’Islanda. E il saggio di Paolo Ricca, teologo protestante, che s’intitola Dio, Apologia“.
Quali sono le letture che ha amato di più?
“Non riesco a rispondere a questa domanda, perché non sono e non so essere un uomo di pochi libri, mi considero un eclettico. Potrei risponderle la Bibbia, o Dante Alighieri e Dostoevskij, che sono due dei miei autori capitali. Ma scivolerei nel luogo comune. Amo molto anche la poesia che, insieme alla saggistica e alla narrativa, permette di attingere a sorgenti diverse: l’ascolto, la scoperta e il messaggio”.
Con un’agenda così affollata quando trova il tempo di leggere?
“Di notte. Dormo cinque ore, quando è tanto, e sto benissimo. La mattina mi sveglio ed è come se avessi dormito per otto”.
Si ricorda il primo libro che ha letto?
“C’era una casa editrice, di cui non ricordo più il nome, che pubblicava il riassunto dei grandi romanzi. Lessi Guerra e pace di Tolstoj e Delitto e castigo di Dostoevskij, che non andavano oltre le 80-100 pagine. Poi la Bibbia per bambini. M’immagino di essere nato con un libro in mano, merito anche di mia madre, che era una lettrice accanita, e delle mie zie, entrambe insegnanti alla scuola elementare di Merate. Da bambino in casa avevamo pochi libri, non essendo una famiglia particolarmente facoltosa”.
Dov’è Dio oggi?
“Resta preziosa l’indicazione biblica: Dio non si scopre decollando dalla realtà verso cieli mitici e mistici, ma è nella storia, si trova nelle forme oscure, anche nei silenzi abissali, com’è accaduto a Giobbe. Lo sforzo alla fedeltà dell’incarnazione è indispensabile per scoprire la presenza di Dio”.
E la fede degli uomini?
“Anche se sulla terra nessuno credesse più in Dio, non per questo Dio cesserebbe di esistere. La fede non nasce dal fatto che Dio esiste, ma dal fatto che Dio si comunica. Dio parla attraverso la storia, non con le visioni estatiche. Va scoperto nel segreto, nel groviglio drammatico della storia, è l’Emmanuele, il ‘Dio-con-noi’”.