la Repubblica, 29 novembre 2022
I 12 anni di andrea Agnelli alla Juve
C’è un bambino biondo accanto al suo papà, un bambino abbracciato a un pallone. È il 1981: la Juventus sta cominciando l’allenamento a Villar Perosa, e il bambino la guarda assorto. Nella fotografia ha una maglia a righe orizzontali bianche e celesti e l’espressione seria dei piccoli quando giocano. Si chiama Andrea Agnelli. Il suo papà Umberto lo osserva poco distante. Una trentina di anni più tardi, quel bambino diventerà presidente della Juve.
È stata una stagione lunga, gloriosa e tumultuosa quella del quarto Agnelli alla presidenza dei bianconeri dopo Edoardo (1923), Giovanni (1947) e Umberto (1955). Andrea succederà al padre quasi mezzo secolo dopo. Arriva molto giovane a guidare la Juventus in quel 19 maggio 2010, ed è un tempo di enormi tormenti, con la Juve quasi non più Juve, offesa nella sua leggenda dagli errori e dagli inganni di Calciopoli, costretta all’onta della retrocessione in B e a una difficilissima risalita, ormai una squadra sfocata. Due settimi posti consecutivi, una catena di allenatori e dirigenti sbagliati, infine la scelta della famiglia: tornare a metterci il nome, il volto e il peso di una storia.
Il ciclo di Andrea nasce da una scelta perfetta: Antonio Conte, essenza di juventinità, l’unico davvero capace di una trasfusione d’anima nel corpo stanco. Così comincia la cavalcata che porterà allo Stadium, ai nove scudetti consecutivi, grazie anche ad Allegri e Sarri. Diciannove titoli in 12 anni (anche 5 Coppe Italia e altrettante Supercoppe nazionali, più 5 scudetti femminili, ma col vuoto perenne della Champions: due finali raggiunte e perdute) fanno di Andrea Agnelli uno dei presidenti più vittoriosi di sempre, anche se non è tutto oro quello che luccica. In questo lasso di tempo si contano anche il progetto della Superlega, finito ancor prima di nascere, e l’operazione Cristiano Ronaldo, un successo a metà: esaltante per l’immagine, molto meno per il bilancio che sotto il peso di un immane contratto ha cominciato a soffrire. Ma l’ombra davvero enorme è la gestione delle ultime contabilità, che ha dato origine all’inchiesta su plusvalenze fittizie e falso in bilancio, quindi alle dimissioni. «Stiamo affrontando un momento delicato societariamente e la compattezza è venuta meno. Meglio lasciare tutti insieme, dando la possibilità ad una nuova formazione di ribaltare quella partita», scrive il presidente nella lettera di commiato. Fino alla fine: stavolta sì.
L’addio di Andrea alla Juventus, otto mesi prima che si celebri il centenario tra gli Agnelli e il club bianconero (ed è centrale, questa scelta) si è svolto in pieno accordo tra il presidente e il cugino John Elkann. Le dimissioni collettive sono apparse inevitabili. L’emotività del momento e il clamore non devono però mutare l’analisi di una presidenza personalissima e controversa, appassionata e muscolare. Andrea è stato un duro. Non ha perdonato le uscite mediatiche di Del Piero, non ha insistito per Dybala. Ha litigato con Conte, ha voluto a ogni costo Ronaldo, sebbene Marotta non fosse della stessa idea. Ha deciso che Allegri fosse superato, si è diretto su Sarri e Pirlo ma poi ha richiamato Max: l’unica retromarcia in 12 anni.
Non ha avuto fortuna, il presidente, quando ha deciso di accelerare il futuro alle porte del Covid che ha bloccato idee e progetti, pesando in modo drammatico sui conti della società. Così, tra tagli più o meno autentici agli stipendi dei calciatori e manovre troppo disinvolte nei libri contabili, è cominciata la fine della presidenza del giovane Andrea. Assai simile, nei tratti somatici, a Edoardo che nel 1923 avviò l’epopea per poi morire drammaticamente in un incidente aereo a Genova. Impossibile per chiunque confrontarsi con il carisma dell’Avvocato, per questo Andrea è stato un presidente più simile al padre Umberto, decisionista e quasi mai sotto i riflettori, poche parole ma definitive. I tifosi lo hanno percepito come uno di loro, e Andrea Agnelli in effetti lo è. Per anni ha seguito da ragazzino la squadra in tutte le trasferte in giro per l’Europa, ha sofferto la perdita del fratello Giovannino e del cugino Edoardo, la storia dei Kennedy d’Italia è tutta un passaggio tra sogno e dramma, luce e buio, dove la Juve rappresenta i giorni forse più felici, quelli della gioventù che combatte e vince. Non sempre e non per sempre, anche se la regola che vale per ogni giocatore e allenatore non può fare eccezione per i presidenti e per chi comanda: le persone passano, la Juventus resta. Siamo sicuri che lo starà pensando anche Andrea, il bambino abbracciato al pallone in quel giorno lontano.