La Stampa, 29 novembre 2022
La leggerezza del male
La Storia, così com’è custodita nella memoria collettiva, assomiglia poco a quel che la gente ha davvero vissuto. A loro insaputa, le persone finiscono sempre per conformare il loro ricordo del passato a quel che se ne dice nel presente. Poi, un giorno, un romanziere (un vero romanziere) riscopre la vita concreta di un periodo storico apparentemente ben noto e tutto appare diverso. Tale scoperta ha sempre qualcosa di scioccante. Per questo motivo i grandi romanzi ambientati durante l’ultima guerra europea (e i giorni che l’hanno seguita) all’inizio sono risultati piuttosto sgraditi. Penso a La pelle di Malaparte. O a Tworki di Marek Bienczyk. E oggi a La camera oscura di Damocle di Willem F. Hermans. Lo so, non ne avete mai sentito parlare. Del resto io stesso ne saprei quanto voi se un amico olandese non mi avesse parlato di questo grande romanzo, segnalandomi la pubblicazione in Francia nella primavera del 2006. Com’è possibile che non ne sapessi nulla? La risposta è semplice: il libro non ha suscitato all’epoca nessuna, dico nessuna, eco in tutta la stampa francese: non una sola riga.
Mi immergo nel romanzo, all’inizio intimidito dalla sua lunghezza di quasi cinquecento pagine, poi stupito dall’averlo letto di un fiato. Questo romanzo, infatti, è un thriller: una lunga serie di eventi piena di suspense. I fatti (che si svolgono durante la guerra e l’anno successivo) sono descritti in modo preciso e scarno, dettagliato ma rapido: sono terribilmente reali, eppure al limite della verosimiglianza. Questa estetica mi ha affascinato; un romanzo innamorato del reale e allo stesso tempo sedotto dall’improbabile e dalla stranezza. Ciò dipende dall’essenza della guerra che è per forza di cose ricca di imprevisti ed esagerazioni? O è il segno di un’intenzione estetica che desidera uscire dall’ordinario e toccare, per riprendere una parola cara ai surrealisti, il meraviglioso («il reale meraviglioso», come avrebbe detto Alejo Carpentier)?
Tale unione di reale e fantastico (in cui l’improbabile non è mai impossibile e in cui il reale non è mai ordinario) si fonda sul personaggio principale, Osewoudt, un giovane, nato settimino, che sua madre ha perso «nel water, insieme alle feci». Eterno imberbe, piccolo, un centimetro troppo basso per esser arruolato nell’esercito, frequenta regolarmente un circolo di judo e non vuole rinunciare a una vita virile. Durante i primi giorni dell’occupazione tedesca incontra Dorbeck, un altro ragazzo che sembra il suo sosia, solo che è di una perfezione fisica assoluta («Gli assomigli come un budino malriuscito assomiglia a un budino riuscito bene» dice a Osewoudt la sua brutta moglie). Soggiogato dal suo doppio, Osewoudt si lascia coinvolgere nella Resistenza. Esegue fedelmente gli ordini che gli giungono per telefono, per posta, attraverso emissari sconosciuti o che, molto raramente, Dorbeck stesso gli comunica nel corso dei loro brevi incontri.
La prospettiva è così data una volta per tutte: l’intera azione è vista attraverso gli occhi di un uomo che non è in grado di cogliere la logica e le ragioni di ciò che è costretto a fare e che entra in contatto con persone che gli sono raccomandate ma di cui non sa nulla. Nel corso di mute e infinite riflessioni si sforza di comprendere quel che succede e di dominare la paura di essere in trappola. Come distinguere infatti un partigiano da una spia? Come essere sicuri che un ordine è autentico o falso? Tutta la sua lotta è un viaggio nell’oscurità dove il senso delle cose svanisce.
E dove tutto è ambiguo: gli omicidi che gli ordinano di commettere sono crudeli; li compie con le mani tremanti, battendo i denti, ma senza rimorsi. Non ha alcun dubbio infatti che ciò che gli ordinano di fare sia giusto. La sua buonafede non si basa su ragioni politiche o ideologiche, ma su una semplice convinzione: «Io sono contro i tedeschi perché sono i nostri nemici. Ci hanno invaso e io mi batto per difendermi». Ma la bella chiarezza che gli viene da questo atteggiamento non può cambiare in nessun modo la fatale ambiguità morale delle situazioni che vive e degli atti che compie.
Una poesia nera non abbandona mai il mondo di Hermans. Per liquidare un collaborazionista in combutta con la Gestapo che si trova in un casolare, Osewoudt è prima costretto ad uccidere due donne del tutto innocenti (sempre che la parola “innocente’’ trovi posto nell’universo di Hermans), cioè la moglie e una giovane che giunge al casolare allo scopo di accompagnare ad Amsterdam un bambino, il figlio del collaborazionista. Osewoudt è riuscito a tenere fuori dal massacro il piccolo, ma poi, per proteggere se stesso, deve occuparsene. Lo porta in stazione, sta con lui in treno e per le vie di Amsterdam; il moccioso, assai viziato, si pavoneggia prodigandosi in una futile e interminabile conversazione a cui Osewoudt è costretto a partecipare. Ecco un esempio di “poesia nera’’: l’incontro tra un triplice omicidio e il balbettio di un bambino esibizionista.
L’esercito americano si avvicina e Dorbeck consegna a Osewoudt (che non lo rivedrà più) una divisa da infermiera perché si metta al sicuro negli ultimi giorni di guerra. Così travestito Osewoudt attira l’attenzione di un ufficiale tedesco che tenta di rimorchiarlo. Il tedesco è omosessuale e Osewoudt gli appare come la prima donna desiderabile della sua vita… Ma ora basta, non voglio esporvi tutta la ricchezza di questo romanzo, tutta la sua improbabile ricchezza. Vi dirò solo l’essenziale: quando la libertà, tanto attesa, giunge con i carri armati nei Paesi Bassi, la già cupa atmosfera del romanzo diventa ancora più nera. Osewoudt è arrestato dai liberatori. La polizia segreta lo ritiene una spia. Lui si difende: le lunghe settimane che ha dovuto affrontare in una prigione tedesca non parlano a sua discolpa? No, al contrario: i tedeschi hanno voluto nasconderlo e proteggerlo. Osewoudt elenca gli omicidi meravigliosamente crudeli che ha perpetrato. Non sono forse la miglior prova della sua innocenza? No: nessuno crede che li abbia commessi. Durante mesi di infiniti interrogatori, cerca qualcuno che testimoni a suo favore. Invano. Tutti i testimoni sono morti. E Dorbeck, il solo in grado di salvarlo? Insiste nel richiederne la presenza. Ma gli agenti non ne conoscono neppure il nome. La difesa di Osewoudt resta senza prove. È vero che anche i suoi accusatori non ne hanno, ma i sospetti dei vincitori, anche privi di prove, si trasformano rapidamente in verità.
La fatale ambiguità morale ha fagocitato la vita di Osewoudt. Le cose, infatti, stanno così: finché c’è la guerra, questa diabolica ambiguità è invisibile alle persone, prese come sono dalle passioni, ma poi, quando giunge il tempo dei verdetti e dei castighi, essa avvelena la vita delle nazioni per molti anni, come il fumo dopo un incendio, un fumo inestinguibile. E Osewoudt? Che fine ha fatto? Pessima. Gli hanno sparato.
Richiuso il libro, mi piacerebbe saperne di più del suo autore: qual è stato il suo itinerario di artista? Dietro alla sua “poesia nera” c’è forse una vena surrealista? Il suo anticonformismo ha delle ragioni politiche? E il rapporto con il suo Paese? Non posso che segnalare qualche data: nato nel 1921, pubblica nel 1958 La camera oscura di Damocle, lascia i Paesi Bassi nel 1973, risiede vent’anni a Parigi, per poi andare a vivere in Belgio. Dalla sua morte, avvenuta nel 1995, gli olandesi lo celebrano come il loro più grande romanziere moderno e, oggi, lentamente, l’Europa comincia a conoscerlo.
Non so nient’altro di lui. Del resto, per accoglierne con favore il romanzo, è inutile. Le opere d’arte sono incalzate da un’indemoniata muta di commenti, di informazioni, di giudizi il cui scalpitio rende inascoltabile la voce originale di un romanzo o di una poesia. Ho richiuso il libro di Hermans con un sentimento di gratitudine nei confronti della mia ignoranza: mi ha regalato un silenzio grazie al quale ho ascoltato la voce di questo romanzo in tutta la purezza, in tutta la bellezza dell’inspiegabile, dell’ignoto.