La Stampa, 29 novembre 2022
Malcolm McDowell si racconta
Finn non ha ancora 16 anni ma Arancia meccanica l’ha già visto. «Un capolavoro. La scena che più mi piace è quella d’apertura, il controzoom che parte dal primo piano e si apre lentamente sui quattro drughi. Quel film non mi ha disturbato, nemmeno ci pensavo che il capo di quel gruppetto era mio padre». Quel padre è Malcolm McDowell ed è seduto a tavola di fronte a lui, in deliquio davanti a un piatto di gnocchi. Mentre degusta estasiato, lo sbirci e pensi che quello una vita fa è stato il sorriso di Alex DeLarge, icona dello stupro, dell’Ultraviolenza e di Beethoven. Probabilmente ti intercetta il pensiero. «Dopo quel film tutti mi chiedevano sempre solo di Alex. A un certo punto non ne potevo più e mi rifiutavo di rispondere. Poi però mi sono chiesto: la mia vita sarebbe stata migliore o peggiore senza Alex?. Con onestà mi sono risposto che è andata molto meglio così. E allora ho ripreso a parlarne».
Parliamone, allora. Quanto era libero di interpretare il personaggio?
«Tanto. Con Kubrick c’era uno scambio creativo continuo, mi lasciava libero di aggiungere espressioni o battute di dialogo».
E una scena intera, quella dello stupro mentre canticchia Singin’in the Rain.
«Lì Stanley era in preda al blocco creativo. Per cinque, interminabili giorni non aveva mai nemmeno acceso la macchina da presa. Il sesto arriva da me e mi chiede se so ballare. L’unica canzone che mi viene in mente è quella e allora inizio a cantarla muovendomi come Gene Kelly. Lo vedo che fa sforzi terribili per non scoppiare a ridere. Salta in macchina e mi dice di andare con lui. Arriviamo a casa sua, lui alza la cornetta del telefono e chiama la Warner. “Acquistate subito i diritti di utilizzo di Singin’in the Rain"».
Kubrick era davvero sadico con gli attori, come spesso è stato dipinto?
«Di episodi al riguardo potrei raccontarne tanti. La volta in cui dovevamo girare la scena di Alex sotto la pioggia avrei prima dovuto farmi una doccia vestito. Faceva freddo e chiesi a Kubrick di avvisarmi all’ultimo, per non gelare. Quando mi diede l’ok mi buttai sotto l’acqua e corsi sul set. Lui non c’era. Fradicio, corsi dall’assistente di produzione. “Ma dov’è finito Stanley?”. “L’ho appena visto andare via in auto"».
Dopo quel film avete mantenuto i contatti?
«No. Me l’ha combinata grossa».
Cos’è successo?
«Un giorno alla Warner e Zanuck mi dice: “Sei contento? Ora sei il ragazzo più ricco d’America”. Gli chiedo cosa intende, lui mi spiega che grazie al 2,5% dei ricavi di Arancia meccanica avevo guadagnato una montagna di denaro. Lo guardo con espressione interrogativa. “Sì”, mi spiega “Il 2,5% a Kubrick, il 2,5% a te. La tua parte l’abbiamo data a lui che te la girasse. L’ha fatto?”. Ovviamente no. Quei soldi non li vidi mai più».
Lei ha impersonato un’altra icona del male, il Caligola di Tinto Brass, uno dei film più estremi della storia. Che atmosfera c’era sul set?
«Più normale di quello che si pensi. Avevo accettato di farvi parte per la stima che avevo nei confronti di Gore Vidal, un vero gigante della letteratura. Devo però ammettere che la sceneggiatura era un guazzabuglio terribile, la leggevo e non riuscivo a trovarci un senso. In più a un certo punto Vidal lasciò il film e le cose andarono ulteriormente alla deriva. Se quel film si è riuscito a finire è solo grazie alla grande determinazione di Brass, aveva tutto sotto controllo e le idee chiarissime».
Di crudeltà in crudeltà, lei al cinema è stato anche il serial killer più prolifico della storia in Evilenko di David Grieco. Come si è preparato per quel ruolo?
«David era andato a Rostov a intervistarlo in carcere ed ero tornato indietro con le videocassette. Insisteva perché le guardassi, ma continuavo a ripetere che non mi interessavano. Avrei personalizzato il ruolo, tanto non volevamo girare un biopic. Lui insiste e alla fine cedo. Ne sono rimasto ipnotizzato. Non dimenticherò mai l’espressione demente di quell’uomo aggrappato alle sbarre della gabbia in cui era detenuto. È stato l’unico caso in cui non ero io a infondere la violenza al mio personaggio ma era la violenza a entrare in me».
Lo giraste tutto a Kiev. Cos’ha pensato quando ha saputo dell’invasione russa?
«Sono rimasto inorridito. Ho ricordi bellissimi di quei posti. La gente non aveva niente, ma preferiva quel niente alla cappa plumbea del regime di Mosca. Non mi sorprende la forza della loro resistenza, hanno già sperimentato l’oppressione russa e non vogliono tornarci mai più».
A cosa sta lavorando?
«Ho terminato le riprese di una serie canadese e sto valutando il ruolo del protagonista in un film inglese su Lord Byron. A breve inizierò a girare un western in Spagna, ad Almeria. Sarò un maestro di scuola che cambia vita e si trasferisce all’Ovest. E questa volta sarò un pacifista che detesta la violenza e le pistole». —