La Stampa, 29 novembre 2022
Intervista a Giorgio Parisi
Questa intervista potrebbe essere superflua. Un anno dopo il Nobel, zigzagando tra reporter asfissianti, Giorgio Parisi ha concentrato sé stesso in 300 pagine e nel libro autobiografico Gradini che non finiscono mai, pubblicato da La Nave di Teseo, sembra aver soddisfatto tutte le curiosità che gli ronzano intorno: scopriamo che è sempre stato bravissimo in matematica, che è ipocondriaco, che ama Bob Dylan e Isaac Asimov, che i quark non gli sono mai andati troppo a genio, che gli è stato intitolato un asteroide, che ha due figli, Lorenza e Leonardo, e tre nipoti, Martino, Teo e Giaìro. Storie e personaggi, intrecciati con garbate allusioni a qualche equazione, entrano ed escono dai capitoli con leggerezza, accompagnati da un ésprit settecentesco. E così, pagina dopo pagina, la curiosità cresce intorno a un signore che non perde mai il controllo e che non esita a dichiararsi un uomo «contento».
Professore, che cosa non ha raccontato nel libro?
«Il Pastagate!».
Qual è la sua versione?
«È la cosa più buffa. Avevo citato su Facebook il consiglio di un amico, quello di spegnere il gas dopo che l’acqua aveva cominciato a bollire. Mi sono detto: forse funziona. E invece l’idea me l’hanno attribuita e subito hanno cominciato a chiamarmi. Mi volevano intervistare anche il Times e il Financial Times e ho dovuto smentire. Un effetto di risonanza che non mi sarei aspettato».
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È un effetto collaterale della vita quotidiana da Nobel?
«Da un lato è tutto bello, d’altro si deve stare bene attenti a ciò che si dice».
Alcuni Nobel, da Watson a Montaigner, non sono stati più gli stessi: teme pericoli per il suo equilibrio?
«Si può diventare folli indipendentemente dal Premio».
Perché ha deciso di raccontarsi in un libro?
«Più che un messaggio, vorrei che il libro affrontasse un problema: la fiducia nella scienza da parte del pubblico. Troppe persone non si fidano, come succede negli Stati Uniti».
E le conseguenze?
«In questo momento, con i cambiamenti climatici in corso, le previsioni vengono fatte prima di tutto dagli scienziati e, se cresce la sfiducia, le conseguenze possono essere disastrose. Raccontando la vita di uno scienziato dall’interno, vorrei contribuire a far capire come si vive immersi nella società e come si produce la scienza stessa. Non possiamo certo andare in giro con un cartello appeso che dica: “Fidatevi di noi!”».
Gradini che non finiscono mai: è questa la metafora della scienza?
«È la metafora di un’ascesa: il sapere va avanti e la ricerca non finisce mai. Punta sempre a qualcos’altro».
Lei racconta un incubo ricorrente: scendere una scala per arrivare al piano terreno, ma i gradini non si esauriscono. Gradini e ancora gradini: c’è un legame?
«Nella realtà salgono, nell’incubo scendono. Non c’era correlazione nelle mie intenzioni, anche se lei non è il primo a farmi notare questa associazione. Il titolo è stato sofferto: abbiamo vagliato decine di proposte. Per esempio, La curiosità porta lontano o Il mondo attraverso i vetri».
Cento capitoli in 300 pagine, raccontati con stile secco e colloquiale: come è arrivato a questa chiarezza?
«È il risultato di quasi 50 ore di chiacchierate con Piergiorgio Paterlini, che conosco da più di 40 anni. L’avevo incontrato a casa di Luce D’Eramo, nel 1979. Lui, subito prima del Nobel, mi aveva proposto di fare una biografia a quattro mani. Così gli ho raccontato tante cose e tante altre mi sono venute in mente. Poi ho riletto tutto e fatto qualche aggiustamento e spostamento».
Luce D’Eramo è stata non solo un’amica, ma – svela nel libro – ha ispirato il suo modo di raccontare la scienza.
«Mi ha aiutato a comunicare le cose di scienza. Voleva sempre che le spiegassi il mio lavoro. A gennaio uscirà la riedizione di Partiranno, con una mia introduzione. Questo romanzo di fantascienza, che racconta l’arrivo degli alieni sulla Terra, è importante per me, perché ci dà una visione di noi stessi e ci permette di guardaci dall’esterno: è quindi fondamentale per elaborare una coscienza ecologica. Luce D’Eramo mi aveva chiesto di risolvere diversi problemi narrativi e io ho fatto da consulente scientifico per lei. Voleva che fosse tutto scientificamente corretto. Altrimenti l’effetto non sarebbe stato realistico».
Nel suo libro, invece, si percepisce un fascinoso «effetto ordine»: tutto, vita privata, professionale e pubblica, scorre armoniosamente. È un caso che lei, da studioso della complessità, cerchi sempre l’ordine nel caos della natura?
«Non lo so, in realtà. Da fuori si vede molto meglio che da dentro. E, se lei lo vede così, io sono molto contento. Ma non voglio sbilanciarmi».
A proposito, lei svela di essere in pace con sé stesso e di essere «contento»: è un termine che non si sente spesso.
«Effettivamente… questo è l’aggettivo preciso. Ci abbiano pensato per un po’».
Dal Bosone di Higgs ai modelli per i cambiamenti climatici: le sue ricerche sono – spiega – frutto di «passione e impegno»: dove la porteranno le prossime indagini?
«Sto provando a concentrarmi. Il Nobel è una distrazione. Ho curiosità vecchie non soddisfatte e curiosità nuove».
Per esempio?
«Voglio capire l’Intelligenza Artificiale. Come mai funziona, anche se non c’è una teoria chiara. Oggi il “deep learning” è un po’ come le ricette da cucina: metti 15 strati di neuroni lì e altri sette là e, poi, vedi che cosa succede».
Torniamo alla Teoria della Complessità, per la quale è noto anche a chi studioso non è: lei sostiene che negarla è l’essenza della tirannia. In che senso?
«Viviamo in società complesse ed esiste una struttura di bilanciamento di leggi e di poteri che impedisce a una maggioranza momentanea di stravolgere le cose. Negare questo equilibrio significa negare la complessità stessa e, quindi, cadere nella tirannia: è una frase attribuita allo storico Burckardt, anche se nessuno è davvero sicuro quando e dove l’abbia pronunciata».