Linkiesta, 28 novembre 2022
L’addio di Alessandro Michele visto da Instagram
Quindi Alessandro Michele non sarà più a capo di Gucci, e la disperazione social non ha a che fare con una preoccupazione per i diffusi rivolgimenti nel mondo della moda (si dice che Miuccia Prada abbia in mente di lasciare, entro un paio d’anni, il suo ruolo nell’azienda). Non ha neanche a che vedere con le giacche da quattromila euro che gli influencer non potranno più comprare; gli influencer non hanno mai comprato nulla, e perlopiù non hanno quattromila euro per una giacca: come in tutti i settori, la Ferragni è una, e il resto è gente che s’arrabatta.
La diffusa contrizione per la fine dell’era-Michele da parte di gente che magari veste Liu Jo ha a che vedere con la terrificante batosta che questa fine dà al percepito di coloro che percepivano rilevanti istanze di nicchia, che percepivano reali certe distorsioni culturali buone solo per dibattiti californiani, che percepivano errato il motto «go woke, go broke».
«Go woke, go broke» significa che se metti in primo piano le istanze postmoderne – la fluidità sessuale e altre invenzioni dell’occidente satollo e annoiato – tutti ti riempiranno di cuoricini ma a nessuno interesserà comprare le tue opere. Certo: per il solito meccanismo che la gente guarda il tuo Instagram per spiare i tuoi cappuccini e le tue vacanze, ma non comprerebbe i tuoi prodotti più di quanto comprerebbe i prodotti di qualcuno che ha l’illusione di spiare guardandolo in un reality. Ma, nel caso del postmodernismo woke, anche per lo scollamento dei suoi rappresentanti dal principio di realtà.
Molti hanno riportato la flessione della crescita nelle vendite di Gucci, ma sarebbe interessante conoscere un altro dato: della crescita – maggiore prima e minore ora – dei profitti di Gucci, quanto viene da ciò che Instagram accoglie come il «genio, puntesclamativo» di Alessandro Michele, e quanto dai mocassini? Quanto dalla tradizione e quanto dall’innovazione? Quanto dai classici del patriarcato novecentesco e quanto dal postmodernismo di dire che noi non produciamo più vestiti maschili o femminili, sono divisioni superate?
È anche interessante che questa fine – che in sé, tizianoferrescamente, non sarebbe niente di speciale: da sempre le case di moda cambiano stilisti senza grandi traumi collettivi – coincida con due dettagli di cronaca. Uno è Aboubakar Soumahoro che va in tv a dire che le foto da arricchita della moglie con accessori Vuitton rappresentano «il diritto all’eleganza»: è bene che l’industria della moda si tenga care le mogli dei Soumahoro del mondo, magari non raffinatissime testimonial ma ultime disposte a pagare per accessori con loghi che nessun marchio di lusso manda loro in omaggio.
L’altra coincidenza è che quelle della fine dell’era-Michele sono le settimane in cui il film nelle sale italiane più elogiato dalla gente che piace è “Triangle of sadness”. Che gli adoratori di Michele e gli spettatori di cinema (due nicchie minuscole ma convinte d’essere rappresentative) hanno, come sempre più spesso accade coi prodotti culturali nel secolo dell’analfabetismo laureato, apprezzato senza capirlo.
Quando il modello cui tocca sempre offrire la cena alla modella le dice che non vuole che il loro rapporto di coppia ricada negli stereotipi di genere, quello che il film sta dicendo è: pubblico, qui devi pensare «povero illuso»; quello che il pubblico del 2022 – il genere di pubblico che va a vedere un film svedese che ha vinto a Cannes e mette i cuoricini ai post di Alessandro Michele – capisce è: il personaggio del modello ha ragione, gli stereotipi di genere sono una brutta brutta cosa.
All’inizio di novembre, il settimanale che è il bollettino della wokeness italiana ha messo in copertina un gruppo di scrittori determinati a sentirsi eccezionali nella loro sessualità e nei loro abiti e nelle loro istanze. Il loro rifiutare etichette e pretendersi speciali era ciò che li aveva accomunati e resi coautori d’una raccolta di racconti che sarebbe uscita di lì a poco. Una parte degli scrittori fotografati vestiva Gucci, naturalmente.
Una copertina di giornale influisce sulle vendite del prodotto che dovrebbe lanciare, o serve solo alla vanità di chi compare in copertina? La prima settimana, la raccolta ha venduto poco più di duecento copie. La seconda, poco più di cento. Go bambino speciale, go questo libro non lo comprano neanche i parenti degli autori.
A un certo punto la coppia di “Triangle of sadness” è in crociera, e un anziano commensale chiede, alla modella che sta fotografando il piatto di pasta, se non la mangi. Lei dice di no: sono allergica al glutine. Il fidanzato spiega: è per Instagram, è una influencer. Il signore novecentesco chiede: ci si fanno soldi? Il fidanzato risponde: più che altro ci si ottengono cose gratis, questa crociera ce l’hanno offerta.
Dice in un’altra scena il tizio novecentesco, citando la Thatcher: il problema del socialismo è che prima o poi i soldi altrui finiscono. Una delle istanze di questo tempo sbandato e dei bambini speciali che lo popolano è abbattere il patriarcato, e il capitalismo da esso creato. Ce l’hanno quasi fatta: hanno ottenuto il ritorno al baratto. Io do una storia Instagram a te, tu dai un prodotto di lusso a me. In questo modo, però, non resta nessuno disposto a pagare per le giacche di Gucci, e non di soli cuoricini su Instagram vivono le multinazionali.