la Repubblica, 28 novembre 2022
Luigi Zanda racconta i suoi 80 anni
Luigi Zanda, lei è il figlio del capo della polizia negli anni Settanta.«Efisio Zanda. Era nato a Cagliari nel 1914, antifascista, amava la musica e il teatro, buon giocatore di bridge. È stato uno dei miei grandi maestri insieme a Francesco Cossiga e ad Eugenio Scalfari».Scalfari?«L’ho conosciuto nel 1976, subito dopo la nascita diRepubblica. Ero il portavoce di Cossiga e mi chiamò: “Lo sai vero che mi aveva promesso un’intervista? E invece l’ha data a Scardocchia del Corriere della Sera !”Non ne sapevo nulla, provai a difendermi. E Scalfari, alzando sempre più la voce: “Voi siete sardi, ma io sono calabrese”. E mise giù».Lei che cosa fece?«Andai da Cossiga e lui, sollevando gli occhi dalle carte, disse soltanto: “Luigi, levami questo pensiero”».Cioè?«Voleva dire aggiusta la cosa. Richiamai Scalfari dopo qualche giorno. “Le Monde vuole intervistare Cossiga. Il tuo divieto vale anche per i giornali stranieri?”. Si mise a ridere e diventammo molto amici. Ci vedevamo ogni domenica per quella che chiamavamo la cena dei cretini. Scalfari mi ha immerso nella vita».Che ricordo ne ha?«Aveva una memoria strepitosa. Faceva le interviste senza prendere un appunto».Con Cossiga invece come andò?«Lo conobbi nel 1974. Ero segretario della commissione governativa sulla crisi petrolifera, che aveva sede a Palazzo Chigi. Ci vedevamo lì. Io sono di Cagliari, lui di Sassari, ci unì la sarditudine».Cossiga era complicato?«Soffriva di depressione, di sbalzi d’umore, mi ha insegnato a guardare lontano e a cercare visioni larghe».Lei oggi compie ottant’anni. Pesano?«Per fortuna non mi pesano. Ho avuto una vita ricchissima».Cosa ricorda dell’infanzia a Cagliari?«Le elementari dalle suore. Se parlavi troppo ti appiccicavano due cerotti incrociati sulla bocca».Cosa facevano i suoi?«Papà era funzionario dello Stato, mamma insegnava filosofia. Sono il primo di cinque figli».Famiglia borghese.«Vivevamo nel rione Castello, in via Canelles. Non c’erano ancora i frigoriferi e mi mandavano a prendere le lastre di ghiaccio per tenere in fresco il cibo. Nel 1950 i miei vollero venire a Roma».Perché?«Per offrire un futuro ai figli. Mio padre lavorava al ministero degli Interni, poi con il presidente del Consiglio Antonio Segni. Trovammo casa ad Ostia, mamma si alzava ogni mattina alle 5 per raggiungere il liceo a Tivoli».Perché tiene in casa i quadri di Lenin e della Rivoluzione d’ottobre?«Mi piacciono le bandiere rosse, ma non sono mai stato comunista. Votavo per il Pri».Cosa ricorda dei 55 giorni del sequestro Moro?«La prima lettera di Moro a Cossiga. Doveva restare segreta, invece le Br la resero pubblica. Lì capii che sarebbe stata dura salvarlo: non volevano trattare».Cossiga finì nel mirino per non avere impedito il sequestro.«Era la sua ossessione. Gli vennero i capelli bianchi, la vitiligine alle mani. Quando entrai nella sua stanza la mattina de rapimento, il 16 marzo 1978, mi disse: “Luigi, sono politicamente morto”».Perché sul caso Moro ha sempre sospettato un intervento sovietico?«C’è un filo che lega l’attentato a Berlinguer a Sofia nel 1973, l’uccisione di Moro e l’attentato al Papa da parte di Ali Agca.Quella del Kgb è una scuola che produce i suoi effetti nefasti anche ora, come vediamo drammaticamente in Ucraina e non solo».Le Brigate Rosse furono eterodirette?«Non ci saprà mai davvero tutta la verità finché non saranno accessibili gli archivi delle grandi potenze: i tasselli che mancano non sono in Italia».Lei seppe di Gradoli, ma perché pensò al paese e non alla via?«Fu Umberto Cavina, il segretario di Benigno Zaccagnini adirmi di Gradoli, un paese sulla Cassia. Presi l’appunto su un suo biglietto da visita che trovai sul suo tavolo e tornato al Viminale informai il capo della polizia».I terroristi stavano in via Gradoli. Senza quell’errore Moro poteva essere salvato?«Non possiamo dirlo. Ma l’informazione riguardava il paese di Gradoli. Per fortuna misi quell’appunto in cassaforte.Conservavo ogni cosa sotto chiave».Cosa ha fatto prima di diventare parlamentare del Pd?«Ho diretto l’Agenzia per il Giubileo, il Consorzio Venezia Nuova che ha progettato il Mose, Lottomatica, le Scuderie del Quirinale, la Quadriennale di Roma, amministratore del Gruppo Espresso e della Rai. Negli anni di Tangentopoli gestivo tanti soldi. Sono fiero di non essere mai stato sfiorato da un’inchiesta».Qual è la lezione?«Nelle aziende servono controlli rigidi interni, richiami a rigare dritto».Lei è stato un potente?«No. Non ho mai raccomandato nessuno».Non ci credo.«Ho difeso persone di valore».Entra in politica grazie a Francesco Rutelli?«Mi chiese di candidarmi per la Margherita al Senato. Era il giugno 2003, avevo già 59 anni. Rutelli è stato un grande sindaco di Roma».Un’elezione senza avversari.«Erano suppletive. La destra non riuscì a raccogliere le firme per proporre un proprio candidato e così mi trovai a gareggiare da solo».Il sogno di ogni politico.«Eletto col 100 per cento dei voti, ma con solo il sei per cento dei votanti, record negativo. Un gol a porta vuota».Chi sono gli altri suoi amici in politica?«Paolo Gentiloni, Dario Franceschini, Rino Formica, GianniCuperlo e Mario Draghi».Come valuta la classe dirigente del Paese?«C’è una regressione. Nel dopoguerra avevamo De Gasperi, Togliatti, Moro, Berlinguer, Mattei, Valletta, Paolo VI, Carli, Menichella, La Malfa. Fenomeni».E oggi?«Siamo passati da un pensiero politico profondo al culto della tattica e delle carriere. In troppi vogliono occupare una poltrona politica come in un’azienda privata. Ho visto scene di disperazione in chi non è stato rieletto: la politica come droga».Ma la politica non è sempre stata così?«Un tempo era anche pensiero, ideali, lotta».Il Pd si salverà?«Solo se saprà definire qual è la sua identità. Avrei eletto un segretario traghettatore fino al congresso».Ha rimpianti?«Per lungo tempo mi è dispiaciuto non avere avuto figli, ora non è più un problema».Come festeggerà gli 80 anni?«Con un viaggio in Italia»