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 2022  novembre 28 Lunedì calendario

Il mestiere di insegnare

«La lezione non è un viaggio su un tram, ma una passeggiata a piedi, perché per chi viaggia è importante camminare e non solo arrivare». A scrivere queste parole è Pavel Florenskij, il “Leonardo russo”, fucilato nel 1937, perché refrattario a irreggimentarsi nel sistema oppressivo sovietico. Secondo l’antica tradizione peripatetica, e la religiosità mistica, quando si passeggia importante non è solo la destinazione ultima, ma anche l’itinerario che si percorre. Con le sue pause, deviazioni, diramazioni. E con lo sguardo del viaggiatore spostato dai dettagli all’orizzonte profondo che li circonda. Anziché procedere per forza in avanti, su binari fissi, chi passeggia, pur senza perdere di vista l’approdo finale, può saggiare strade diverse, inoltrarsi lungo sentieri laterali, arricchire l’itinerario con incontri imprevedibili.
A riprendere queste considerazioni, articolandole in un quadro di rara suggestione, è Gustavo Zagrebelsky, in un libro agile, appena edito da Einaudi, col titolo La lezione. La lezione non si limita a riempire il tempo che scorre tra i due campanelli dell’inizio e della fine. È un’esperienza di vita, quasi un organismo vivente che, secondo il significato latino di legere e greco dilégein, riunisce un gruppo di persone intorno a qualcuno che, parlando, getta luce su qualcosa di opaco. La lezione non è un dialogo o una confessione, né semplicemente una discussione. Non si rivolge a un unico interlocutore, e neanche a tutti, bensì a un gruppo raccolto in quel luogo pubblico, ma circoscritto, che è l’aula. Anche il termine “aula”, interrogato nella sua provenienza etimologica (aulòs),è qualcosa che eccede lo spazio delimitato da quattro pareti. È – o dovrebbe essere – un luogo in cui le parole risuonano, vibrano, trasmettendo un sapere che non è somma inerte di conoscenze passate, ma apertura di senso sulla contemporaneità. L’insegnamento, quando è tale, oltre ad istruire, istituisce, nel senso che dà vita a qualcosa di nuovo, destinato a sedimentarsi e farsi esperienza vissuta. Ma la lezione, che istituisce, è a sua volta consentita dalla prima tre le istituzioni umane, è cioè dal linguaggio. Zagrebelsky dedica pagine intense alla funzione umanizzante della parola. Oggi nelle aule scorronoimmagini sugli schermi o si ascoltano suoni. Ma né le immagini né i suoni possono sostituire le parole. Così come, per esprimersi, anche le sensazioni o le emozioni, devono tradursi in parole. Sono queste che profilano i contorni delle cose, legandole a noi in una rete di significati condivisi.
Le parole ci aprono un mondo, che altrimenti ci resterebbe ignoto e ostile. In un certo senso siamo noi stessi a crearlo, nominandolo – non, come il Dio cristiano, ritirandosi da esso, ma abitandolo. Certo le parole possono travisare, ingannare, mentire – come spesso hanno fatto e continuano a fare. Basti pensare come i vocaboli “libertà” e “democrazia” vengono inghiottiti da realtà che ne rovesciano il significato. Ma possono anche fissare qualcosa che fino a un certo momento non aveva nome e che tuttavia irrompe nella storia con una potenza distruttiva che va colta nella sua assoluta specificità. Come è accaduto con i termini “genocidio” o, oggi, “femminicidio”. Insomma la parola può essere una trappola, ma anche una risorsa, senza la quale la nostra vita, da semplice materia vivente, non potrebbe superare la soglia del bíos,farsi forma di vita. La lezione – la scuola – è il luogo di trasmissione, attraverso la parola, di contenuti che non devono limitarsi a riempire un’ignoranza, ma attivare una tensione, stimolare un interesse, fecondare un’esperienza. Attenzione, in nessun modo Zagrebelsky indulge a concezioni “democraticistiche” della scuola. È consapevole dei danni irreparabili provocati, in anni non lontani, dai “voti politici”, dai cedimenti diffusi nei confronti di richieste insensate, dal rovesciamentodei rapporti tra studenti e professori, con i primi che giudicano e valutano i secondi.
Certo, trasformare la scuola e l’università in una sorta di esamificio e gli esami in interrogatori, incapaci di andare aldilà dalla pura quantificazione delle nozioni apprese, stravolge il senso stesso della lezione. Ciò non toglie che, almeno fin quando varranno i titoli di studio, non si può rinunciare a verifiche, prove, controlli. Del resto, senza ostacoli da superare, non è possibile crescere. Ma questo non può significare cedere al linguaggio afono delle circolari ministeriali, alla insensatezza sgrammaticata delle “linee guida”, all’ottusità della macchina burocratica che tratta la scuola come un’azienda. La scuola non può vivere fuori dalla freschezza dei rapporti concreti tra studenti e docenti, senza gli stimoli, i confronti, le sane competizioni che in questi anni di didattica a distanza sono inevitabilmente venuti meno.
Solo questa concretezza, nata dalla condivisione tra i ruoli, che pure devono restare distinti, dei maestri e degli allievi può restituire alla discussione, piuttosto bislacca, che sta nascendo intorno alla nozione di merito, un senso meno legato alle ideologie del momento. Il problema, come emerge da questo libro, è che una scuola che è meglio non definire “di massa”, ma semmai “di tutti”, non deve legittimare stratificazioni sociali, cristallizzare diseguaglianze o addirittura autorizzare esclusioni. Solo a partire da questo presupposto il principio del merito può ritrovare la sua funzione culturale e sociale.