la Repubblica, 28 novembre 2022
Il piano di Piano per Casamicciola
«Nel momento del cordoglio e del lutto bisogna dire subito due cose che solo in apparenza sembrano contraddirsi: non è stata una fatalità, ma quelli che ora gridano ‘dagli al colpevole’ e ‘ piove governo ladro’ sono gli stessi che, quando li metti in guardia, quando gli spieghi che c’è da aver paura, fanno gli scongiuri, si toccano. Ma possiamo accettare l’idea di affidare le nostre case, la nostra terra e le nostre vite al cornetto rosso, alla zampa di coniglio, ai toccamenti?». Renzo Piano ha “pudore” di parlare di Ischia perché «l’architettura non è geologia», ma «il rammendo del territorio da nove anni è la mia ossessione, la sostanza di quella carica di senatore a vita che, appunto, da nove anni sto cercandodi onorare». E dunque ripete: «Nessuno venga a dirci che la tragedia di Ischia è stata una fatalità, innanzitutto perché non si costruisce così sulla ‘polvere’. Sempre quando si edifica in discesa ci vuole una speciale attenzione all’acqua, anche se costruisci sulla roccia. E io che sto costruendo sulla roccia del Monte Bianco vicino a Chamonix, so che ci vogliono competenze molto raffinate. Figuriamoci a Ischia, alle pendici del monte Epomeo, che è di tufo».
E non è mai fatalità perché «lì dove si è corso il rischio di costruire, e troppo spesso male e abusivamente, che è uno degli avverbi del disastro italiano perennemente condonato, non si è poi intervenuti né con la manutenzione né tantomeno con il rammendo del territorio a rischio». Gli dico che il Monte Epomeo a Ischia è ancora il luogo dei misteri popolari, l’aldiqua poroso con l’aldilà, il “gigante buono” al quale affidarsi con gli scongiuri. Insomma, gli confermo «che la manutenzione civile viene risolta con quella scaramanzia che poi quando arriva la tragedia diventa pianto rituale e caccia al colpevole».
Allo stesso modo il rammendo, che in nove anni ha aperto tanti piccoli cantieri in molte periferie del Paese, «lo so, viene liquidato come un concetto poetico, un pensiero romantico». E invece è la sola possibilità che ci resta, visto che «non possiamo buttare giù l’Italia e rifarla daccapo». E «per mettere in sicurezza il nostro territorio, ammesso che sia possibile, ci vorrebbero soldi che non abbiamo» e che nessun Pnrr ci può prestare. E qui torna il pudore: «Sono un edificatore, so tutto sui muri, su come rinforzarli e come aiutarli a resistere. So di meno su come mitigare gli effetti di una frana. Ma ho imparato che rammendare il territorio fragile non solo è possibile dovunque e comunque: è necessario. Non si elimina il rischio, ma lo si limita, lo si prevede senza fare gli scongiuri e magari lo si governa pure».
Con la politica, dunque. «Con la politica. E visto che sono senatore a vita e sono pure un vecchiaccio, io vorrei rivolgermi a questo governo che è nato con una forte maggioranza e che ha dunque la mano salda per sfidare localmente, quando occorre, l’impopolarità e permettersiun orizzonte e un pensiero strategico. A questo governo affido il mio appello bipartisan per un piano di lunga durata di rammendo idrogeologico e boschivo del territorio italiano a rischio. Il rammendo cuce, non è dispendioso e accende luci, contagia con l’emulazione, insegna. Non interventi irrealistici, ma piccoli cantieri di contenimento e di speranza, una scuola di rinascita e di risparmio, alla genovese».
Non ci sarebbe bisogno del Fondo monetario internazionale né della Banca europea, visto che con lo stipendio di un solo senatore a vita in nove anni sono stati pagati tanti giovani progettisti che hanno aperto una ventina di cantieri nelle periferie delle città italiane. E poi nel territorio i comuni e le università hanno fatto la loro parte: il costo medio è di duecentomila euro a progetto. Si può davvero fare anche il rammendo idrogeologico e boschivo?
Si possono fare i terrazzamenti, come in Liguria e in Costiera amalfitana, dove sono stati realizzati anche per ragioni agricole – ulivi, limoni –, e ci sono gli alberi, da piantare anche dove c’è l’incolto: «La forestazione è il preliminare indispensabile anche perché gli alberi rallentano l’acqua, un bosco frena e trattiene l’‘irrivazione’, vale a dire il tempo che ci mette l’acqua a diventare rivo, e poi il rivo torrente e il torrente fiume. È ovvio che gli alberi cambiano tutto e non solo con la rete delle radici». Sarebbe bastato rammendare Casamicciola? «Non lo so, ma è sempre meglio che sperare nella fortuna e poi biasimare le alluvioni».
Casamicciola è anche un archetipo, perché è zona sismica e dunque somma fragilità a fragilità: «È uno dei tanti luoghi magici della natura matrigna, anche perché ha una storia di disgrazie che, come a volte capita, hanno prodotto anche fortune. Abbiamo riletto in questi giorni come a Casamicciola il piccolo Benedetto Croce si salvò dal terremoto che, lo scrive lui stesso, gli formò il carattere». Anche Gaetano Salvemini si salvò dal terremoto di Messina del 1908 che sterminò la sua intera famiglia, la moglie, i cinque figli e la sorella, e val la pena rileggerlo: “Ero in letto allorquando sentii che tutto barcollava intorno a me e un rumore di sinistro che giungeva dal di fuori... Feci appena in tempo a spalancare la finestra che la casa precipitò come un vortice, si inabissò, e tutto disparve in un nebbione denso, traversato come da rumori di valanga e da urla di gente che precipitando moriva”. Nella catastrofe si forgiarono dunque il coraggio e la prudenza del liberalismo italiano, quello radicale e quello moderato. «E forse anche questa catastrofe di Casamicciola può condannarci alla saggezza bipartisan del rammendo. Dalla grande sofferenza per quei morti di cui neppure sappiamo ancora il numero, da quest’altra tragedia che ci è arrivata all’improvviso e ci ha sconvolto tutti come quel giorno in cui crollò il ponte di Genova, può partire la scintilla di un nuovo miracolo italiano. E Casamicciola, come fu Genova, da luogo dove ci siamo smarriti diventerebbe il luogo dove ci ritroviamo».