La Stampa, 28 novembre 2022
Figli che non vogliono diventare genitori
Figli siamo tutti. Genitori no. Conveniamo? Conveniamo. È un’evidenza, un fatto, una sperequazione inevitabile. Silvia Ranfagni dice che mettere al mondo un figlio significa sempre partorire un genitore e questo cambierebbe e ricalibrerebbe tutto: i ruoli, le responsabilità, i diritti, i doveri, il ricambio generazionale, le aspettative, perfino quello che scrisse Erodoto per mostrare l’assurdità della guerra – «In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra i padri seppelliscono i figli».
Lo dice, Ranfagni, scrittrice, nel libro I figli che non voglio (Mondadori, a cura di chi scrive), da domani in allegato con La Stampa, oltre che in libreria. È un libro che fa questo, principalmente: ribalta quello che diciamo, subiamo, inventiamo, nascondiamo, a proposito di cosa significa e comporta essere genitori. Ci riesce (credo, spero) perché, in questo esercizio che è un’indagine, è un dibattito, è un parlarne tra amiche e amici, tra colleghi, tra estranei (insomma: tra persone), parte da una prospettiva minoritaria e poco conosciuta, poco ascoltata: quella di chi non ha figli e non li ha perché non li vuole, non li ha pur potendone avere. È un buon metodo, non particolarmente innovativo, ma di certo poco impiegato: parlare di qualcosa dalla prospettiva di una minoranza, analizzare un fenomeno dalla parte di chi non è, rispetto a esso, cruciale e per questo, anziché raccontare, è stato raccontato. Guardare con gli occhi di chi non partecipa, e non solo di chi decide o è decisivo, è lo sforzo invocato e richiesto dal nostro tempo e da chi si appresta a ereditarlo.
La ragione per cui questo libro esce in allegato alla Stampa è semplice: il dibattito, indagine, conversazione che raccoglie, è nato su questo giornale, e ne ha animato le pagine di Cultura per molte settimane, passando per stadi attesi e inattesi: guerra di mondi, confessione, sconfessione, tregua, liberazione, armistizio, scoperta, pace. La sintesi di questi stadi è finita in un libro e non è una proposta, o una presa di posizione, ma uno sguardo.
In questi anni, di maternità e genitorialità si parla moltissimo, soprattutto nel nostro Occidente, segnato dal crollo delle nascite anche laddove i governi sono assai più efficienti di quello italiano nel sostenere le famiglie dove nascono bambini. In Italia se ne parla tantissimo, con la contrizione ipocrita degli impuniti: a culle sempre più vuote, non c’è alcuna risposta sistematica, robusta, profonda da parte delle istituzioni. Succede per molti motivi, il primo fra tutti è che questo è un Paese che considera ancora la genitorialità come un desiderio forte, naturale, più pane che companatico, qualcosa di cui nessuno può privarsi e per cui tutti sono disposti al sacrificio. Perché aiutarli, allora? L’altra ragione è che questo Paese considera ancora i figli come proprietà e onere delle donne. Questa retorica, a lungo considerata incentivante, ha, invece, contribuito a sacralizzare un fatto della vita, a renderlo determinante e, di fatto, respingente. La sola richiesta (non rivendicazione, richiesta) che in ogni parte di questo libro troverete è questa: considerare il fare o non fare figli un fatto che succede, non una scelta identitaria, non un lavoro, non una missione, non una catechesi.
A gennaio dell’anno scorso, quando si parlava come sempre si fa a gennaio di quanti bambini in meno rispetto all’anno precedente erano nati nella notte di capodanno, su Specchio, l’inserto domenicale della Stampa, ci siamo detti che la denatalità, oltre che un problema, è un fatto e questo significa non solo che è in parte irrisolvibile, ma che porta sulla scena nuovi attori, nuove ragioni, nuovi modi di stare al mondo. In altre parole: la denatalità è il fenomeno dal quale, più di tutti, dovremo trarre le coordinate di geografia sociale e politica con cui ridisegnare il mondo che abitiamo e abiteremo. In quel numero di Specchio c’era un intervento di chi scrive: s’intitolava come s’intitola il libro. Era un racconto personale e allegro di come e perché mi ero resa conto, a 36 anni suonati (ora 37) di non desiderare un figlio e di come questo, anziché generare dolore, ansia, depressione, dubbi, avesse generato in me una consapevolezza importante: sono al mondo per vivere, il senso della mia vita è vivere, non diventare madre.
Non avevo e non avevamo idea che quell’articolo avrebbe suscitato quello che ha suscitato: lettere, interventi, richieste di aiuto, mazzi di fiori, insulti, ringraziamenti, anatemi. Gli interventi, per quello che è stato possibile, li abbiamo ospitati sul giornale: alcuni (la maggior parte) sono arrivati spontaneamente, altri su richiesta. Alcuni dei nomi che li firmano: Nadia Terranova, Giorgia Soleri, Michela Marzano, Francesco Ditaranto, Daniele Mencarelli, Francesca Sforza, Alec Trenta, Raffaele Notaro, Elisa Casseri: scrittrici, scrittori, giornaliste, attiviste, avvocati, fumettisti.
Tutti possiedono una luce e una libertà che abbiamo ritenuto preziosa, unica, importante. Hanno scritto più madri che non madri, e hanno scritto più donne che uomini: è un caso, o forse solo la prova di un ordine delle cose.
Quando Mondadori mi ha chiesto di fare di tutto questo un libro, e dei fili li ho dovuti tirare, mi sono resa conto che più che un libro sulla maternità, questo sarebbe stato un libro sullo stare soli e sulla enorme differenza che passa tra lo stare soli, che mi sembra una delle nuove ambizioni delle persone e che ha tanto bisogno di venire scorporata dall’egoismo, e l’essere soli, che è invece l’inferno nel quale da secoli precipitiamo tutti, senza che le famiglie possano farci granché. Soprattutto, mi sono resa conto che questo sarebbe stato un libro di donne, e non sulle donne, dove sono donne anche gli uomini, e sono figli anche i piatti di pasta, e sono genitori anche i solitari.
Flavia Gasperetti scrive: «La mia contraddizione è che ci si può sentire inquieti tutta la vita, mai del tutto appagati, e provare comunque una disperata nostalgia del presente, una possessività feroce nei confronti del proprio tempo, di una vita che non è niente di che, è abbastanza marginale, è ridicola, ma io l’ho voluta proprio così, in ogni sua parte, e quanto ho brigato per averla». Ecco, se c’è una cosa di cui questo libro è sprovvisto, ed è forse il punto che mi emoziona di più, è l’orgoglio. Non ci sono madri orgogliose di essere madri, e donne orgogliose di non esserlo: non ci sono rivendicazioni, non ci sono richieste, non ci sono proteste, non ci sono rivoluzioni. A chi guida questo Paese, a chi lo costruisce servendo caffè al bar o progettando disegni di legge e festival culturali, vorrei tanto e solo che fosse chiaro quello che a me è stato chiaro incontrando queste voci: fare o non fare figli non è un’assunzione di responsabilità nei confronti della realtà, e meno che mai di se stessi.
Infine, mi sono accorta che questo sarebbe stato un libro su quello che può e deve fare un giornale: prendere una posizione che apre un varco, e su quel varco innestare un racconto. Andrea Malaguti, vicedirettore di questo giornale, ha scritto nella prefazione: «Di nessun aneddoto si può fare una storia generale. L’architettura delle esistenze non si fonda su regole scolpite nella pietra. E chi lo pensa è matto, o illuso, o vecchio, o non lo so. Ma penso che questo dibattito valesse la pena». Alla fine, è questo che cerchiamo di fare, su un giornale: qualcosa che valga la pena. Abbastanza da finire in un libro, che vi sia utile, ci sia utile. —