il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2022
Pubblicità occulta, la piaga che divora i giornali
Per i lettori o per gli inserzionisti? Per chi scrivono i giornali? Secondo i giornalisti, dovrebbero essere i primi, secondo manager e inserzionisti i secondi. La diatriba infuria da decenni ma ormai – soprattutto in Italia – è una battaglia di retroguardia: oggi la centralità è del marketing. Piombati nella spirale del crollo delle vendite, i quotidiani si aggrappano alla pubblicità, finendone ostaggio. Gli inserzionisti hanno ormai scavalcato “la muraglia cinese” che un tempo separava i contenuti dall’advertising, si infiltrano e occultano negli articoli, perché la pianificazione dei budget pubblicitari comprende sempre più spesso forme “innovative” che i tecnici chiamano “brand journalism” o “native advertising” ma che i vecchi cronisti definivano spicciamente “marchette”. Il crollo di prezzi e volume della pubblicità tabellare e degli annunci, ormai fagocitati dai giganti del web, porta i messaggi delle aziende negli articoli: numeri sul valore di questo segmento del mercato pubblicitario in Italia non ve ne sono, ma questa modalità di promozione l’anno scorso nel mondo valeva 57 miliardi di dollari. Ossigeno per i conti delle testate che però mette in discussione l’integrità e la residua credibilità del giornalismo.
Il fenomeno infuria anche sui principali media italiani. Pubblicità occulte vengono inserite in articoli, video, post pubblicati dalle maggiori testate. Ne ha messe in fila molte, negli ultimi anni, la testata specializzata online Professione Reporter, diretta da Andrea Garibaldi e fondata ad aprile 2019, tra gli altri, da Vittorio Roidi e Raffaele Fiengo. PR ha messo in fila articoli che contengono pubblicità occulte di marchi di moda, località turistiche, prodotti di bellezza, ma anche ristoranti, alberghi, alimenti. L’elenco è sterminato: solo per citare alcuni casi, Repubblica (Gedi), 5 novembre 2019, “Pasta frolla, Nutella e ingegneria, la ricetta del biscotto da 120 milioni”; Repubblica, 24 luglio 2022, “Una carbonara per Ferragni” (con sette pubblicità nell’articolo); Repubblica, 6 febbraio 2020, “Pane e Nutella. La via italiana di McDonald’s”. La Stampa (Gedi), 15 maggio 2020: “Riaprono gli Apple store”. La Gazzetta dello Sport (Cairo), intervista a Federer con sponsor Barilla in vista e domanda sulla pasta preferita, guarda caso quella prodotta dall’azienda di Parma. Corriere della Sera (Cairo), 10 giugno 2021: “Il Ct Mancini firma una collezione per Paul & Shark”. Corriere della Sera, 17 maggio 2022, intero numero “dedicato” alle Ferrovie dello Stato con articoli per due pagine (delle quali una di intervista all’ad Luigi Ferraris) e richiamo in prima, più paginate di pubblicità. Apoteosi sul Corriere della Sera del 20 giugno 2020: pagina 31 “Fendi, ripartire da Roma”, paginata sul concerto di una violinista al quartier generale della maison, la concertista avrebbe indossato tre capi d’alta moda casualmente di Fendi; pagina 32: “Dallo sport alla musica rap. I nuovi mondi di Bikkembergs”, foto del rapper Fedez con ai piedi la “capsule collection” del marchio e intervista a manager del gruppo; pagina 33 Francesca Lusini, presidente di Peuterey, che racconta “i nuovi tessuti tecnici”; pagina 34, articolo “Stesso mare, solari nuovi” (con foto). I comitati di redazione, ovvero le rappresentanze sindacali interne delle redazioni di Repubblica, Corriere e altre testate, hanno preso pubblicamente posizione contro il fenomeno, ma sinora non sono riusciti a fermare questa deriva.
Il tema è stato discusso il 12 maggio anche a Roma, nel seminario “The Wall. Quale confine tra informazione e marketing?”, realizzato in collaborazione tra Dipartimento Coris dell’Università la Sapienza e Fondazione “Paolo Murialdi” sul giornalismo. Anche su questi temi Raffaele Fiengo, storico giornalista e sindacalista del Corriere, tiene un corso universitario alla Sapienza con 144 studenti: “Il giornalismo contemporaneo stenta a fare la sua parte, aggravato dal web. I giornali stanno cambiando, marketing e pubblicità hanno forme nuove. Al seminario ho sentito giornalisti spiegare che le pianificazioni pubblicitarie fatte dalle agenzie prevedono valori a budget per i listini tabellari che si triplicano se la pubblicità entra negli articoli”.
Secondo Daniele Chieffi, giornalista e docente universitario che ha partecipato all’incontro di Roma, “bisogna smetterla di girarci intorno: nel giornalismo, nonostante i tentativi di segnalare questi contenuti, esiste una ‘zona grigia’ di cui tutti sanno ma che formalmente non viene denunciata in cui i grandi investitori riescono a ottenere dai giornali spazi che sono evidentemente pubblicitari ma come tali non vengono mostrati. Dunque il sistema editoriale è debole verso le aziende. D’altro canto esiste un mercato sano dell’uso delle tecniche giornalistiche per produrre comunicazione d’azienda, realizzare contenuti per le aziende con passo, metodi e strumenti giornalistici mantenendo però in maniera netta la visibilità al pubblico, con un approccio etico corretto. Il brand journalism è un settore che si sta sviluppando velocemente perché le aziende hanno bisogno per i loro uffici comunicazione di cronisti che facciano questo lavoro con ottica giornalistica. Ma se non è gestito correttamente, il native content è un segmento che affonda le unghie nella debolezza della contabilità e dei bilanci delle aziende editoriali italiane, sensibili alle sirene degli inserzionisti. Servono dunque attenzione ed etica. Il problema è che l’Ordine dei Giornalisti, cui spetta il controllo della deontologia professionale, pare anni indietro. Anche il codice di autodisciplina di pubblicitari non è completamente applicabile a questa fattispecie. Il sindacato dei giornalisti Fnsi, nel tentativo di proteggere i numeri dell’occupazione, e la Federazione degli editori Fieg, interessata a sostenere i bilanci, sembrano fare orecchie da mercante. Ricade tutto sulle spalle della deontologia dei singoli giornalista ed editore”, conclude Chieffi.
In realtà le regole ci sono. Il “Testo unico dei doveri del giornalista” all’articolo 10 obbliga i cronisti ad “assicurare ai cittadini il diritto di ricevere un’informazione corretta, sempre distinta dal messaggio pubblicitario attraverso chiare indicazioni”. Anche la giurisprudenza in proposito è chiara e convergente. La Corte d’appello di Milano, con una sentenza del 18 luglio 1996, ha stabilito che “oltre all’obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l’osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, il giornalista deve anche apparire conforme a tale regola: su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra lettori e stampa”. L’Autorità Antitrust (Agcm), cui spetta la repressione della pubblicità occulta, tra il 20 aprile 1998 e il 18 ottobre 2021 è intervenuta 89 volte. L’ultima decisione, datata 30 settembre 2021, riguardava la sponsorizzazione degli svapatori di una marca di tabacco realizzata su Instagram dagli influencer Stefano De Martino (4,4 milioni di follower), Cecilia Rodriguez (4,3 milioni di follower) e Stefano Sala (327 mila). Ma il fenomeno si diffonde. Per contrastarlo, l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (Iap) a breve userà uno strumento basato sull’intelligenza artificiale in grado di scandagliare i social network per trarne una prima selezione di casi che saranno valutati da un’analisi umana. Così dalle redazioni arrivano indiscrezioni di telefonate e comunicazioni su piattaforme online tra pubblicitari e caporedattori: sono usate per rendere arduo tracciare il denaro della pubblicità occulta.