La Stampa, 27 novembre 2022
A 40 anni dalla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa
Sono passati quarant’anni dalla strage di via Carini, quella in cui persero la vita, a Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro, mentre erano diretti verso un ristorante di Mondello, scortati dall’agente Domenico Russo, scomparso 12 giorni più tardi, dopo aver lottato invano contro la morte. Un periodo che oggi sembra lontanissimo perché, come dice Sergio Castellitto, protagonista della serie Il nostro generale, ieri in anteprima al Tff (e dal 9 gennaio su Rai 1), uomini come Dalla Chiesa sono stati irripetibili prototipi: «Sono figure antropologicamente scomparse, quei motori lì non li costruiscono più, Dalla Chiesa è stato un uomo che ha agito per senso del dovere, nel rispetto delle istituzioni e della democrazia, un uomo che non ha mai vissuto un giorno di pace. A chi gli chiedeva perché avesse scelto quel tipo di esistenza rispose una volta, in un’intervista, “per continuare a poter guardare in faccia i nostri figli”. Era un soldato che sapeva obbedire alla propria legge morale».
Materiali di repertorio e filmati originali si mescolano nel tessuto del racconto, realizzato con la collaborazione del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e costruito con l’intento di mettere a fuoco non solo il coraggio e la tenacia del protagonista, ma anche i risvolti privati dell’ambito familiare, i rapporti con i giovanissimi arruolati nel «Nucleo speciale antiterrorismo» con l’obiettivo di muoversi negli ambienti vicini ai terroristi: «Volevamo raccontare – spiega Lucio Pellegrini, regista della serie insieme a Andrea Jublin -, una grande storia italiana, mettendo in fila gli avvenimenti, dai primi rapimenti simbolici alle vendette trasversali». Una trama che, partendo dal 1973, quando il Generale viene trasferito da Palermo, dove era impegnato nella battaglia contro la mafia, a Torino, dove le Brigate Rosse iniziano a rivendicare le prime azioni di propaganda armata, non ignora snodi complessi come la richiesta di affiliazione alla P2: «Abbiamo lavorato con l’aiuto di consulenti storici e in accordo con la famiglia – precisa Pellegrini -, volevamo raggiungere il massimo grado di veridicità possibile, senza tralasciare certe opacità del personaggio che fanno parte di un momento confuso e complesso della storia d’Italia. Più la guerra diventava importante e più Dalla Chiesa si è ritrovato solo». Il cedimento, aggiunge Castellitto, «alla seduzione melmosa della P2 coincide, per il Generale, alla fase in cui si è sentito maggiormente isolato, in cui i suoi nemici più grandi erano all’interno dell’Arma, in cui era stato confinato in un ufficetto... Gli eventi vanno sempre contestualizzati, la famiglia non ha negato la possibilità di raccontare quella fase. Tutto quello che vedete sullo schermo è realmente accaduto, e non dimentichiamo che i dalla Chiesa hanno vissuto in un’atmosfera da “fine pena mai”, la figlia si è sposata in caserma con i carabinieri intorno. Quando Dalla Chiesa va a trovare Peci in carcere, capiamo che si tratta di due tragici predestinati».
Tra i meriti del protagonista c’è, continua Castellitto, quello di aver intuito un punto in comune con i suoi nemici: «Per combatterli e vincerli bisognava trattarli come soldati impegnati su un fronte opposto, riconsegnare loro, paradossalmente, la dignità di avversari». Prima delle riprese c’è stata una fase di preparazione: «Ho passato un pomeriggio bellissimo con Rita Dalla Chiesa – spiega l’attore -, mi ha raccontato un sacco di cose sul padre, per esempio che adorava Mina e gli piacevano le patate fritte, che la prima moglie Dora Fabbo era una donna solare, che era un burlone e amava fare gli scherzi. Possono sembrare sciocchezze, particolari ininfluenti, ma non è così, perché il generale Dalla Chiesa è stato anche un padre, un marito, un nonno, e averlo ucciso ha significato anche determinare la “orfanità” di tante persone». La scelta di interpretarlo contiene varie ragioni: «Nel mondo di oggi, in cui la velocità di rimozione e fortissima, è importante salvare il valore della testimonianza. Quando ho detto a mio figlio di 15 anni “faccio Dalla Chiesa”, mi ha chiesto “chi è? “, ho pensato di aver trovato un buon motivo per girare la serie». Regista oltre che attore, Sergio Castellitto confessa di essere stato ben contento di tornare a fare solo uno dei due mestieri: «Non avere la responsabilità della messa in scena è una pacchia, anzi, credo che potrei continuare così. Tra l’altro, in famiglia, abbiamo già uno che è bravo a fare il regista… Per me il lusso è fare la regia solo se l’idea e il progetto accarezzano davvero il mio entusiasmo». —