La Stampa, 27 novembre 2022
Intervista a Toni Servillo
Potrebbe dirsi completamente soddisfatto, appagato dal suo stato d’attore amatissimo, venerato da generazioni e da registi diversi, da chi va al cinema e da chi preferisce il teatro. Eppure non lo farebbe mai, perché Toni Servillo, ieri ospite del Tff, confessa di essere sempre «in uno stato di tumulto che non lascia spazio a facili bilanci, a definizioni definitive, ad autoanalisi sul chi sei e perché sei seguito. Sono domande continuamente rinnovabili, io spero solo di non deludere il pubblico, la cosa che più mi piace nella meravigliosa avventura del recitare è proprio che la pacificazione non sia nell’ordine delle cose».
Che cosa significa per lei trasmettere cultura attraverso testi teatrali e personaggi cinematografici?
«È molto importante, è la ragione per cui ho iniziato a fare questo mestiere. Nella scelta di aver formato a Napoli una compagnia teatrale chiamata “Teatri Uniti” c’è stata la volontà di fare teatro fuori dalla routine e fuori dall’ambito commerciale tout court, di trovare una propria fetta di mercato e di conquistarla con le unghie e con i denti senza aspettare che fosse qualcuno a posizionarci sul mercato. La convinzione di fondo è che il dibattito culturale sia ciò che caratterizza la civiltà di una nazione. Ci siamo schierati dentro una tradizione secondo cui la riunione di persone in una sala teatrale o cinematografica debba essere anche un’occasione di emancipazione reciproca».
Quindi fare l’attore è anche un gesto politico?
«Credo che chiunque decida, nella propria vita, di parlare in pubblico, debba farlo con un senso di responsabilità che è un atto politico. Deve sapere cosa dice, a chi lo dice, come lo dice. Un attore che riesce a comunicare al pubblico una sua idea dello stare al mondo è un attore che svolge una funzione politica. Nell’antica Grecia il teatro è nato con questa intenzione, con la volontà di fare in modo che lo spettatore, insieme agli attori, avesse la possibilità di verificare lo stato di tenuta del suo stare al mondo».
Pensa che, in questo momento, il dibattito culturale possa essere in qualche modo minacciato?
«Non mi unisco al coro delle preoccupazioni che sembrano emergere tutte in questo momento, ritengo che, con alterne vicende, lo Stato italiano abbia sempre considerato la cultura, i beni culturali e anche la scuola, come problemi di bilancio e non come luoghi in cui fare investimenti concreti. Insomma, fatti, non parole. Non possiamo nasconderci che, da tanti anni, si chiedano leggi importanti per la cultura e che mai niente di veramente rivoluzionario sia stato fatto. È da tanto che la cultura continua a essere considerata una Cenerentola».
Vuol dire che non vede legami tra la politica del momento e il modo con cui la cultura viene trattata in Italia?
«È chiaro che da uomo di sinistra, sono preoccupato per lo spostamento del Paese verso idee di destra, ho sempre votato a sinistra e quindi, in maniera civile, nutro la preoccupazione che tutta l’Europa possa spostarsi a destra. Però mi sembra un po’ facile ritenere che non ci siano colpe venute da epoche precedenti. E poi è anche presto per dare valutazioni, vediamo come andranno le cose».
Perché in Italia si fa così poco per la cultura?
«Preferiamo sempre reagire quando le cose vanno veramente male, programmiamo con difficoltà, restando miopi rispetto al futuro. Per esempio, dal mio punto di vista, ci sarebbero due cose molto semplici da fare per riportare i ragazzi al cinema. Una è prevedere più sale dove sia possibile vedere film in lingua originale, non possiamo ignorare il fatto che la maggior parte dei giovani di oggi guardino e ascoltino tutto così. E poi, come accade in alcuni Paesi europei, immaginare, almeno nelle grandi città, una tessera mensile a prezzi popolari che consenta ai giovani di entrare e uscire da tutti i cinema».
Dopo la pandemia, il teatro, a differenza del cinema, ha vissuto una vera esplosione di successo. Secondo lei perché?
«Il teatro crea una condizione di umano conforto, legata alla circostanza dell’essere spettacolo dal vivo e quindi di offrire una possibilità irripetibile di partecipazione che, soprattutto nelle fasi di difficoltà, acquista un significato importante. Ho girato ad Atene, con Theo Angelopoulos, nel 2012, prima che le riprese fossero interrotte dalla sua morte tragica, proprio nella fase più critica della crisi economica greca. Notavamo, con Theo, che, nonostante continuassimo a vedere banche, negozi, supermercati, con le saracinesche abbassate, i cinema e i teatri continuassero a essere pieni. Sono i luoghi dove si condivide la liturgia dello stare insieme, il teatro, da sempre, ci libera dai momenti di solitudine».
È una star, ma allo stesso tempo, una persona molto riservata, che si è protetta con attenzione dalla curiosità dei media. Perché?
«È una forma di rispetto e anche di affetto nei confronti del pubblico, il nostro Eduardo diceva che la qualità dell’attore sta nel dare la sensazione allo spettatore di venire da molto lontano. Oggi, nell’era dei social, è difficile mantenere quel riserbo, e invece il pubblico deve fare la sua parte, che è molto legata all’immaginazione e alla fantasia. Siamo in un’epoca corrotta, molti para-attori improvvisati legati al fenomeno del reality credono che mettere in scena la propria vita, le proprie miserie, significhi recitare. E invece è esattamente il contrario. Le proprie miserie vanno nascoste e poi utilizzate, regalandole ai personaggi, è questo il trucco dei grandi interpreti. Come diceva Petrolini il vero trucco non è quello che hai sulla faccia, ma quello che ti fai sull’anima».
Che cosa le fa più paura, in questo periodo così complesso che stiamo attraversando?
«L’incompetenza arrogante, sbandierata come se si volesse dire “sono ignorante e me ne vanto”. La superficialità spacciata per profondità, il mordi e fuggi di cui siamo vittime, il “pret a porter” culturale. Posso usare una frase che viene dalla saggezza di Eduardo De Filippo? Sa cosa diceva? “A me me fa paura o’fess”. Sposo completamente questa affermazione. I danni che può procurare un fesso nel posto sbagliato sono incalcolabili». —