la Repubblica, 27 novembre 2022
In morte di Irene Cara
Si potrebbe dire che tutto cominciò nel 1977 con La febbre del sabato sera, ma sarebbe un errore. Certo, quel film aiutò a lanciare in tutto il mondo il fenomeno della disco-music nello stesso anno in cui in Gran Bretagna esplodeva il punk, creando una dicotomia negli ascolti e nei comportamenti dei giovani musicofili che non si è più ripetuta con tale virulenza. Ma John Travolta era un attore-ballerino (in Grease, l’anno dopo, avrebbe anche cantato) bianco, non wasp ma italoamericano, che raccontava un personaggio working class ma comunque aspirante al benessere, e sgambettante al suono dei Bee Gees: ovvero di un gruppo pop già “antico” – l’esatto opposto dei Sex Pistols – per quanto brillantemente riciclatosi con sonorità nuove. Insomma, La febbre del sabato sera non era “il nuovo che avanza”, né in termini di ballo né, in senso lato, di cultura popolare. La vera svolta, i veri input ai quali i corpi dei bianchi medi faticheranno ad adeguarsi arriva all’inizio degli anni 80 e Irene Cara, morta ieri a 63 anni in Florida per cause ancora sconosciute, è la portavoce di una rivoluzione.
Anche lei viene da lontano: quando interpreta Coco in Saranno famosi ha solo 21 anni ma è già una veterana. Ha inciso il primo disco a 8 anni ed è una star delle tv americane di lingua spagnola, ma il film la proietta in una dimensione globale. Alan Parker, il regista, era un inglese di origini molto ruspanti (disprezzava i registi usciti dai college esclusivi come Oxford e Cambridge) e aveva lavorato con due grandi cantanti: quando gli si nominava Madonna (Evita )gli veniva il vomito, quando si citava Irene Cara gli brillavano gli occhi.
Saranno famosi è un film corale che intercetta un caposaldo della cultura americana, lo show business come allenamento e duro lavoro, il sogno di sfondare,di condividere il proprio talento con il mondo. Irene ne diventa un simbolo e le due canzoni da lei interpretate, FameeOut here on my own,sono candidate all’Oscar.La prima vince,ma lei ha il grande onore di eseguirle entrambe durante la cerimonia.
La rivoluzione si compie con Flashdance... What a feeling è un pezzo clamoroso e stavolta l’Oscar è per metà suo, perché figura anche come autrice in coppia con Giorgio Moroder. La canzone crea un effetto di illusione che ancora oggi, nel raccontarlo, fa venire i brividi: accompagna le evoluzioni del personaggio di Alex, l’operaia protagonista, che è insieme androgina (quel nome maschile…) e multietnica, perché Jennifer Beals è figlia di un afroamericano e di un’irlandese. Ma a ballare non è Beals, bensì un coacervo di controfigure, soprattutto la francese Marine Jahan ma anche il portoricano Richard Colóndetto “Crazy Legs”. E sotto le evoluzioni di questo iper-personaggio c’è la sua voce, quella di Irene Cara, che ha scritto il pezzo assieme a un altoatesino (Moroder è nato a Ortisei). È come se tre-quattro continenti, e tutti i sessi a disposizione, si mettessero d’accordo per costringere i corpi dell’umanità a muoversi in base a nuove regole. Poco dopoFlashdance esce in Italia un film – oggi forse dimenticato, ma allora assai popolare – che per assonanza viene intitolato Breakdance (in originale era solo Breakin’ ). Quel film, orgogliosamente afroamericano ma diretto da un regista bianco nato a Tel Aviv, Joel Silberg, fa scoprire anche agli italiani cresciuti con illiscio le meraviglie della breakdance. Già inFlashdance c’erano accenni di questa nuova danza, nata per la strada esattamente come il tip tap (si capisce cos’è davvero la tecnica esaltata da Fred Astaire solo quando la si vede eseguita dai bambini neri nelle strade di New Orleans). Vedendo i ragazzini neri disarticolarsi in modo sovrumano, e ballare facendo spinnin’ appoggiandosi solo sulla testa, sfidando ogni legge di gravità, un’intera generazione capì che la danza non era più euclidea e che dimenarsi in discoteca era roba da poveracci. Il mondo, nella prima metà degli anni 80, ha cominciato a muoversi in modo diverso: e tutto è partito da lei, da Irene Cara.