la Repubblica, 27 novembre 2022
Poeti di guerra
Dal 24 febbraio 2022 le parole sulla guerra riempiono in maniera intensiva edicole e librerie. Si usano tutte le parole per dirla, capirla, spiegarla. Il discorso della guerra è affidato all’analisi refertuale. Cronache e ipotesi, studi strategici e geopolitici ci accompagnano giorno per giorno. Ma pare del tutto persa la parola empatica e poetica, che invece è fiorita tra le bombe delle guerre del passato. Che fine ha fatto la poesia? Che fine ha fatto il racconto? L’illuminismo dell’analisi schiarisce le ombre e prevede il futuro. E rassicura. O inquieta, che poi è lo stesso, perché dà l’illusione di avere tutto chiaro.
Oggi, proprio oggi, dobbiamo chiederci se abbiamo ancora le parole per il dramma, per la tragedia. Sembra, a volte, che solo il Papa riesca a dire parole che non siano di analisi e di sintesi, ma di compassione, empatia e dunque, in qualche modo, di carattere poetico. Così è stato per il tempo del Covid, dove al trionfo dei bollettini ha corrisposto il flebile canto dai balconi prima e i passi del Papa in una piazza San Pietro deserta esotto la pioggia dopo. E basta.
Ma quali parole possiede la letteratura per dire l’esistenza precaria dell’uomo in un contesto bellico? Nella sua monumentale Estetica, pubblicata nel 1832, Hegel individuava nella guerra un evento opportuno per la letteratura. Il conflitto dello stato di guerra infatti, a suo giudizio, rappresenta «la situazione più appropriata» al genere epico. Infatti, l’epica deve rappresentare, da un lato, uno sfondo universale; dall’altro, gli avvenimenti degli individui o, meglio, dell’eroe. La guerra è allora ideale per lo scrittore, perché coinvolge scenari ampi – il panorama dellenazioni, la geopolitica – e insieme consente di mettere in luce il singolo uomo e il suo valore. Dall’epica classica, a questo punto, non si può non giungere a evocare gli scenari diGuerra e pace di Tolstoj, in cui sono schierati Napoleone, discendente e simbolo della razionalità illuministica che considera la guerra come una partita a scacchi, e il vecchio generale Kutuzov il quale sa che la storia non è nella volontà degli uomini. Guerra e pace si rivela come un trattato di gnoseologia e di etica, e la guerra diventa simbolo della vita umana nel suo complesso.
Le prime due guerre mondiali segnano una svolta nell’immaginario bellico. L’esercizio della violenza diretta è sempre meno presente, e il singolo è solamente il pezzo di un congegno bellico. Resta lo scenario, ma si va perdendo l’eroe. La coscienza di Paul Börner, protagonista di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, viene eliminata da un colpo di granata, un avvenimento insignificante per il bollettino di guerra che recita: «Niente di nuovo sul fronte occidentale». L’eroe diviene un puntino dolente nell’universo che vive tra i fischi dei proiettili.
La parola letteraria può diventare àncora di salvezza, approdo di umanità, resistenza. In Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, il narratore sta per uccidere un soldato austriaco: è un nemico e dunque da uccidere senza pensarci. Ma accade qualcosa: la «certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso». Emmanuel Lévinas ha riflettuto a lungo sulla “resistenza” del volto umano rispetto a qualunque violenza. Levi, Wiesel hanno testimoniato una resistenza, disperata ma tristemente salda, al male assoluto che insidia e attanaglia da tutte le parti. E, in modo diverso, affine a quello deLa vita è bella,anche il premio Nobel Imre Kertész inEssere senza destino.
La resistenza a volte cede il posto a un atteggiamento più smarrito, meno coerente, meno discorsivo. Se l’atteggiamento epico di fronte al conflitto implicava la parola ritmica, la rutilanza dell’emozione e dell’impresa, la sensibilità affiorata nei due conflitti mondiali fa sì che metro, linguaggio e sintassi esplodano e si frantumino.
Citando un’espressione del Castello dei destini incrociati di Italo Calvino, si può dire che si è «sfasciata la sintassi del mondo» e questo ha provocato specularmente lo sfascio della sintassi del linguaggio.
Così la parola di Ungaretti, ad esempio, quando passa «Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato/ con la bocca / digrignata / volta al plenilunio». Il deragliamento dei sensi, di cui sono stati maestri poeti simbolisti quali Arthur Rimbaud, viene qui assimilato, ma non per esprimere l’allucinazione ribelle e ribollente, bensì la condizione di pena. Il risultato è dunque una poesia dal ritmo agonico, ansimante, franto.
Ma la tragedia può assumere toni talmente terribili da valicare la soglia del linguaggio. Il campo di concentramento e l’esplosione atomica, a stento lasciano spazio a un balbettio inebetito e disarticolato. Forse, più che nelle parole, è nella musica dodecafonica di Arnold Schönberg o nelle forme dilaniate della Guernica di Picasso che è possibile trovare una forma espressiva coerente al caos vissuto. Adorno si è chiesto se dopo Auschwitz fosse ancora possibile fare poesia. È con questo estremo del silenzio che occorre confrontarsi per cogliere i nervi del rapporto tra guerra e letteratura.
Paul Celan si è radicalmente confrontato con una parola poetica che attraversa la tragedia e che viene cavata da un abisso. Sarà l’orrore della guerra a condurlo a suicidarsi, gettandosi nella Senna. Celan scrive che il poeta «inspira», la realtà che gli sta intorno, la elabora per mezzo dell’arte e la restituisce, la «espira» come poesia. Ma se l’aria intorno alla realtà si fa irrespirabile? Da poeta è convinto che la parola si salvi, ma per salvarsi deve «traversare le proprie impossibilità di rispondere, la propria tendenza ad ammutolire», che «toglie il respiro e la capacità di parlare», fino a farla diventare «respiro di pietra». La poesia «resiste». Resta la tensione della parola, «riserbata e taciturna», strappata al silenzio come una vita strappata alla morte.
E oggi? Paola Tonussi manda in libreria per Ares un volume prezioso dal titolo War Poets che raccoglie testi di quattordici scrittori britannici della Prima guerra mondiale. Può essere questa, forse, l’occasione buona per porci una domanda: quali saranno le parole per dire la Terza guerra mondiale a pezzi in un mondo ipermediatizzato dove il silenzio non esiste più? Sta vincendo il «respiro di pietra», l’asfissia della parola poetica ed empatica?
Saremo illuminati, affascinati e anestetizzati dal «rovello / dell’attenta osservazione, / l’analisi, la sintesi» (Cattafi)? Ci basteranno i discorsi sul metodo?