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 2022  novembre 27 Domenica calendario

Sull’Antologia di Spoon River

L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters è probabilmente il libro più leggendario che la poesia occidentale abbia prodotto da inizio Novecento a oggi. Detto così può sembrare uno sproposito, ma potrebbe essere una sfida destinata alla sconfitta trovare un’opera di poesia altrettanto diffusa e amata, pressoché in ogni Paese e ormai da parecchie generazioni di lettori. Si tratta insomma del libro di poesia contemporanea forse più conosciuto al mondo, e dunque, a tutti gli effetti, di un mito, che come tale possiede anche qualcosa che esula dalla ragionevolezza, da ciò che può essere spiegato attraverso i parametri consueti, e perfino, quasi finisse per mandarlo un po’ in crisi, dal cosiddetto giudizio estetico.
Lo stesso Lee Masters tentò più volte di rendere ragione, probabilmente anzitutto a sé stesso, dello straordinario successo che fin da subito arrise a questa sua opera, addirittura già prima della sua stessa pubblicazione (la prima edizione è del 1915, la seconda e definitiva dell’anno seguente). Nella primavera del 1914, infatti, quando già da parecchi anni esercitava l’avvocatura a Chicago, aveva cominciato a pubblicare sotto pseudonimo su un settimanale di St. Louis, il «Reedy’s Mirror», le poesie che di lì a pochi mesi sarebbero confluite nell’Antologia. Ma il consenso e di conseguenza l’interesse dei lettori erano stati così forti da spingerlo a rivelare la sua vera identità. E questo straordinario successo di pubblico non si sarebbe più fermato, allargandosi anzi a macchia d’olio via via che sempre nuove traduzioni rendevano disponibile il libro nei quattro canti del globo.
Eppure le opinioni della critica, diciamo così, professionale sono state sempre molto contrastanti al riguardo, cioè divise tra l’esaltazione trionfalistica e, più spesso, il contenimento, se non la denigrazione, in quest’ultimo caso dando a volte l’impressione, però, che il giudizio sul valore intrinseco delle poesie fosse in qualche misura condizionato dalla constatazione, e in fondo dal problema, dello stupefacente successo dell’Antologia, volta a volta accusata di essere trascurata stilisticamente, sciatta e prosastica, metricamente arbitraria (è scritta sostanzialmente in verso libero), piattamente realistica, scadente dal punto di vista linguistico, limitata dal punto di vista concettuale e filosofico, e tant’altro. Di fatto nel canone ufficiale dei grandi poeti statunitensi del Novecento Lee Masters non c’è, non nei primi posti almeno. Ci sono invece Robert Frost, Wallace Stevens, William Carlos Williams, oppure gli espatriati T. S. Eliot e Ezra Pound, e magari qualche altro con loro. E, del resto, anche Lee Masters rimase sempre piuttosto perplesso riguardo alle vie imperscrutabili della letteratura e al singolare, misterioso destino della sua celebre raccolta. Scrisse moltissimo, infatti, ed era convinto che alcune sue opere di poesia gli fossero indiscutibilmente superiori. Nessuna di queste, tuttavia, ebbe mai nemmeno lontanamente i riscontri che aveva e avrebbe sempre avuto l’altra. Lee Masters morì praticamente in miseria nel 1950, come se la sua creatura poetica avesse finito per oscurarlo, rubandogli non solo il palcoscenico ma la vita stessa.

Anche in Italia la fortuna dell’Antologia di Spoon River è stata, non può dirsi diversamente, straordinaria. Tanto più dal punto di vista editoriale sembrerebbe un libro dalla vita eterna. Detto altrimenti – il caso tende all’unicità – è una raccolta di poesia che sempre, costantemente continua a venire acquistata. Non è una caso che negli ultimi anni le traduzioni si siano moltiplicate, tant’è che non sono poche le case editrici che hanno in catalogo la loro particolare edizione. Del resto, la sua storia italiana era cominciata con il piede giusto. Sono vicende così note da costituire anch’esse una piccola leggenda. La prima traduzione nacque per la casa editrice Einaudi, sotto gli auspici di Cesare Pavese, per mano di Fernanda Pivano, in una scelta parziale nel 1943, quindi integralmente nel 1947. Per decenni, e probabilmente a tutt’oggi, è questa l’edizione di riferimento del pubblico italiano (c’è da chiedersi quanti lettori abbia avuto nel corso del tempo). Quindi va ricordato ovviamente Non al denaro non all’amore né al cielo, l’album di Fabrizio De André uscito nel 1971 e ispirato direttamente dalle poesie dell’Antologia, il che poi significa dai personaggi stessi. Quant’abbia contribuito alla diffusione dell’opera non c’è bisogno di dirlo.
Andrebbe poi segnalata almeno la traduzione di Antonio Porta, vale a dire di un poeta di qualità, uscita per Mondadori nel 1987 e riproposta qualche anno fa da il Saggiatore a cura di Pietro Montorfani, a cui si deve la traduzione dell’ampio e molto utile scritto di Lee Masters intitolato La genesi di «Spoon River».

Sorvolando su altri episodi che in realtà andrebbero ricordati, si fa notare adesso per accuratezza e organicità L’antologia di Spoon River tradotta e commentata per La nave di Teseo da Alberto Cristofori, che nella sua bella introduzione riflette con equilibrio sui pro e i contro di quest’opera dalle vicissitudini così eccezionali. Può essere fruttuoso comparare anche le diverse traduzioni, che risulteranno tutto sommato piuttosto simili, almeno se paragonate a quelle di altri poeti e di altre poesie, le cui traduzioni tante volte risultano invece distantissime. Questo a dire di come e quanto il discorso poetico di Lee Masters, che è sempre diretto e comunicativo, privo d’immagini di particolare densità e autonomia, sia essenzialmente una questione di voce e di respiro, di andamento volta a volta legato a questo o quel personaggio.
Dell’Antologia possono darsi sostanzialmente due letture diverse, che come sempre accade è forse più giusto e produttivo fare in qualche misura convivere. Una più attenta all’aspetto storico e sociale, ai contenuti determinati e dunque alla comunità dei parlanti che si rappresenta, personaggio dopo personaggio, recitando direttamente il proprio epitaffio. E sono allora, sempre e comunque con i loro nomi, le donne e gli uomini presi in un’infinità di mestieri, di caratteri, di passioni e rancori, di rovelli e contrasti, attraverso cui il microcosmo di una piccola comunità di provincia risulta poi una grande visione, insieme critica e nostalgica, dell’intera società americana e della sua storia.
Eppure quest’interpretazione, di per sé senz’altro legittima, se assunta come il carattere primo e ultimo del libro, finisce per assomigliare alla scorza realistica di una poesia che ha in mente altro: un discorso non sulla storia o sulla società, bensì sull’umano destino o, detto altrimenti, sulla comune condizione umana. È stato notato tante volte, ma vale la pena ripeterlo: i personaggi, pur tra loro così diversi e spesso in conflitto, sono però tutti dalla stessa parte, parlano dal regno dei morti, e dunque non solo da un punto di vista ultimo e definitivo, ma da una condizione che è la stessa per tutti. La morte, perché di questo poi si tratta, ha messo tutti quanti in pari. E proprio come quando si attraversa un cimitero (e l’Antologia è esattamente una lunga sequenza di epigrafi), leggendo queste poesie si è sempre accompagnati dal sentimento di una splendida e terribile, e certo comune, irrevocabilità, come una specie di ultima giustizia. Così facendo Lee Masters si è riallacciato direttamente non solo alle scaturigini della letteratura occidentale, ai classici, all’Antologia palatina, a Dante, ma anche alle più profonde aspirazioni e paure della nostra antropologia. La poesia nasce quasi sempre di lì. Giovanni Pascoli, che delle voci dei morti e di poesia s’intendeva come pochissimi altri, giusto a proposito della Commedia dantesca ha scritto: «Nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti».