La Lettura, 27 novembre 2022
La guerra per la conquista del Polo Nord
«Facciamo del Polo un polo di pace», disse Mikhail Gorbaciov un giorno del 1987, di rimando a Ronald Reagan che gli aveva chiesto di tirare giù il Muro. Come sembrava facile, allora. Lo scontro era fra Est e Ovest e nessuno, sovietici e americani a parte, guardava troppo a Nord. L’Artico pareva solo un non-luogo minacciato tutt’al più dallo scioglimento dei ghiacci e congelato in una guerra gelida fra super e minipotenze che, almeno lassù, apparivano poco bellicose. Illusi! Non sapevamo quanto ghiaccio bollente ci serbasse il passato, ci celasse il presente, ci preparasse il futuro.
Per dirne una: mesi fa è partita la più Grande inchiesta internazionale mai condotta sulle persecuzioni subìte dagli eschimesi Inuit fra gli anni Quaranta e Settanta. Un olocausto ignorato. Un dito puntato su danesi e canadesi, norvegesi e svedesi, su tutti quei «pacifici colonizzatori» che oggi si riempiono le coscienze d’inclusività e di sostenibilità, ma dopo la Seconda guerra mondiale, con lo stesso zelo, gelidi e determinati, combattevano la crescita demografica in Groenlandia, vedevano negl’indigeni un ostacolo allo sfruttamento selvaggio dell’Artico e zitti zitti provvedevano a modo loro: impiantando le spirali a migliaia d’ignare ragazzine inuit, perché non procreassero; deportando centinaia di bambini, per educarli in città ai costumi occidentali; uccidendo almeno ventimila husky da slitta, per impedire la caccia. Un abbozzo di genocidio. «Agl’Inuit venne raccontato che dove venivano traslocati era una specie di valle del latte e del miele, avrebbero trovato abbondanza di prede e case confortevoli», spiega Marzio G. Mian, lo scrittore che al Grande Nord ha dedicato mezza vita, fondando l’agenzia Arctic Times e scrivendo le migliori pagine artiche del nostro giornalismo: «Se gli Inuit non avessero gradito, fu loro garantito, avrebbero potuto tornare a casa. Ma nessuna di queste promesse fu mantenuta».
In Canada, l’indagine sullo sterminio degli eschimesi s’è già conclusa e ha stabilito con quarant’anni di ritardo che in effetti, sì, quella fu la peggiore violazione dei diritti umani nella storia del Paese: «Morirono centinaia d’Inuit, perché non potevano più cacciare. Subirono abusi sessuali da chi doveva assisterli e recentemente s’è scoperto che le loro lettere, dove chiedevano aiuto al mondo, finivano al macero. Si videro togliere anche i nomi: ognuno aveva un “numero eskimo” inciso su un dischetto di pelle, da portare al collo».
Artico Ferox: alzi la mano chi lo sapeva. La vicenda è finita nel freezer dell’informazione globale. Com’è quasi sempre, quando qualcosa accade nell’High North del mondo. «Venuto sei da l’artico emisperio», dice l’allunato Astolfo a San Giovanni nell’Orlando furioso, ed è lì che la nostra immaginazione collettiva s’è fermata: una cartolina immutabile che ci tramandiamo, fatta di lande senza spazio né tempo, casette rosso Falun, orsi&licheni, quella che «per lungo tempo ci siamo abituati a considerare una mitica e ultima Thule», dice Mian, «percepita nei millenni lontana come una Luna, un altro pianeta rispetto alla Grande storia dell’umanità». E invece il Winterlust, l’incanto invernale che struggeva Thomas Mann, è un incantesimo spezzato: «L’Artide in meno d’una generazione, con il cortocircuito climatico, è diventata luogo di conquista neo-coloniale; qualcuno sostiene che sia addirittura il Piano B dell’umanità in un globo sempre più desertificato, sovraffollato e scarso di risorse. Oggi non c’è posto al mondo dove le cannonate sparate in Ucraina rimbombino forte come nella regione polare».
Sfatiamo innanzi tutto certi miti paradisiaci sul Valhalla, ci dice Mian. Il Grande Nord ricco e sofisticato, in epoche lontane terra di barbari e ora modello di sviluppo, ha le sue pecche. Ed è ben altro che quella specie d’America mite e decaffeinata, come Reagan definiva il noioso Canada. O la Finlandia Felix delle Sanna Marin al governo, che in realtà conta ogni anno molti più femminicidi dell’Italia. O la Norvegia maniaca dell’elettrico, che poi trivella senza sosta il suo sparegris (salvadanaio: lo chiamano proprio così) artico. O l’Islanda selvaggia, che spregiudicata finisce per sfruttare il global warming e acchiappare i turisti. O l’anticonformista Svezia, che però condanna all’isolamento sociale chiunque osi criticare la sacra dottrina della neutralità gender.
Esteso una volta e mezza l’Europa, meno abitato dell’Irlanda, il Continente Bianco s’è molto ingrigito. E lo stesso Polo Nord è diventato oggi un buco nero con la guerra intorno. Una Guerra bianca — come s’intitola l’ultima inchiesta che Mian pubblica per Neri Pozza, lungo e approfondito reportage nel malessere nordico e «sul fronte artico del conflitto mondiale» – che è solo all’inizio: «L’Artico cambierà drasticamente», ha detto Joe Biden lo scorso giugno, «per il suo dominio potrebbe scoppiare una guerra»; «Spaccheremo i denti a chiunque pensi di sfidare la nostra sovranità», l’ha avvertito Putin nelle stesse settimane, «non esiste Artico senza Russia e Russia senza Artico».
Sempre Putin, ancora Putin. Dalla A di Artico alla Z dell’Operazione speciale, scopriamo con Mian, è nell’assalto all’ultima Thule che va aggiornato l’alfabeto putiniano. Perché, dopo le crepe dei ghiacci, si rischia l’abisso bellico. Lassù finora se l’erano gestita i russi e gli americani e gli scandinavi, gli Otto del Consiglio artico, ingolositi dalle immense risorse che affioravano con lo scioglimento, ben attenti a non guerreggiare troppo fra di loro. Il Polo di Pace sognato da Gorby s’è però sfaldato col 24 febbraio, quando sette governi hanno espulso l’ottavo dal loro club. Rompendo il tabù della Guerra Bianca: «Dopo l’Ucraina è cambiato tutto», rivela a Mian un senatore americano, Angus King, «ora la questione non è se ci sarà un conflitto nella regione polare, ma come evitarlo. Ciò che si prepara sul tetto del mondo è un problema di sicurezza nazionale per ogni Paese occidentale».
Con l’immagine candida del Valhalla, anche la cortina bianca è caduta. E se un tempo c’era un solo Grande Artico condannato alla pace, ora ce ne sono due rimpiccioliti e condannati allo scontro. Con l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, perdipiù, s’è infranto un altro dogma e detto addio all’antico orgoglio della neutralità: a Nord ci si schiera dove Putin fa più paura. E Russia e Cina, divise sul Donbass, qui s’alleano per piazzare i più sofisticati sistemi di navigazione satellitare e per la prima volta, a poche miglia dalle basi americane, svolgono manovre navali congiunte nel Mare di Bering. Altro che tattico nucleare: quando Putin invade l’Ucraina e allerta le forze di deterrenza atomica, è ai sommergibili nucleari infrattati nelle ventidue basi della penisola di Kola che si rivolge. Par di riascoltare i tamburi di guerra del 2021: «Il nuovo ordine mondiale si decide oltre il Circolo Polare», prevede un ex diplomatico russo, Anton Vasiliev, «la Nato concentra le sue forze approfittando dell’impegno russo in Ucraina. Sanno che la nostra esistenza dipende dal Grande Nord...».
Il senso dei russi per la neve perenne è la nuova saga nordica. Che s’aggiunge agli affari di miliardari senza scrupoli come Roman Abramovic, l’amico dello Zar, una fortuna edificata sul ghiaccio. E a un mare di guai: dall’odissea dei seimila pescherecci norvegesi, costretti per il riscaldamento a inseguire il merluzzo e lo sgombro in altri mari, alla tragedia dei suicidi eschimesi nella Groenlandia danese. Tristi trichechi: «Gli scenari di guerra che racconto», dice Mian, «sono gli stessi dov’è già chiara, sul campo, la Waterloo del pianeta».
La battaglia sul disgelo che ormai ha trasformato in un vecchio arnese anche la giovane Greta Thunberg, con le sue intemerate antioccidentali, perché nel 2035 l’Oceano Polare sarà sghiacciato e «la crisi climatica gioca a favore della Russia: il riscaldamento dell’Artico per Mosca è il “generale inverno” del nuovo millennio». È Viktor Ilic Bojarskij, celebre esploratore prediletto dal Cremlino, a raccontarci il Grande gioco polare: «Gli Stati Uniti non hanno idea di che cosa è capace la Russia, se provi a mestare nel suo Artico. Con Putin o senza Putin… Tutti lì a chiedersi da sempre se la Russia guarda a ovest o a est, se è europea o asiatica. Cazzate, la Russia guarda a nord! Ha sempre guardato a nord! Ancora non avevano uno Stato e già i russi puntavano alla Stella Polare».
Nel Nord c’è la vera Russia che cerca il divino, dice il catechismo del patriarca ortodosso Kirill, mentre è al Sud che stagna la natura umana con le sue bassezze. Nel 2012, il premier Medvedev e i suoi pope sono saliti al Polo per inabissare nell’oceano una capsula di titanio: dentro c’era un documento con cui il Patriarca sanciva il dominio storico e religioso della Russia sull’Artico. Perché il Grande Nord è benedizione suprema, ghiaccio che dà ai russi forza e destino. Oltre a un discreto patrimonio: 24 mila chilometri di coste che forniscono a Putin gas e petrolio pari al 50 per cento del Pil, una cassaforte d’idrocarburi che può garantire le esportazioni fino al 2050.
La guerra ucraina ha complicato i piani, ma questo «bancomat energetico» rimane la migliore polizza sulla vita dello Zar, la ridotta da dove potrebbe sparare l’ultima cartuccia. «Sono convinta che la Russia reggerà allo tsunami delle sanzioni», confida a Mian l’ex spia americana Rebekah Koffler, per vent’anni impiegata su questo fronte: Putin ha sempre dato priorità al budget militare e ha speso mille miliardi di dollari in dieci anni, ma «ora da almeno cinque anni la sua priorità è l’Artico e nulla gl’impedirà di finanziarlo», mentre a Washington ancora minimizzano il pericolo militare e invece dovrebbero «capire che bisogna intervenire nell’Artico non oggi, ma ieri. Perché l’unico linguaggio che capisce Putin è quello delle cannoniere». A Washington, al dipartimento di Stato, per la verità non ci dormono la notte. Mian raccoglie le voci d’alti funzionari che temono l’incidente, la scintilla della Guerra Bianca. Dove? Soprattutto nell’Artico europeo delle Svalbard, l’arcipelago dove si susseguono i misteriosi sabotaggi dei cavi sottomarini. Oppure sullo Stretto di Bering: Mosca s’è sempre rifiutata di firmare il trattato che definisce il confine marittimo con gli Stati Uniti. Tempeste all’orizzonte. In Alaska non hanno mai sentito così vicino l’alito dell’Orso. E in tutto il Grande Nord, persa la verginità dei popoli felici, seduti sui grandi arsenali nucleari, nel permafrost paludoso dove sono comparsi insetti mai visti, non s’è mai avuta tanta paura del destino.