La Lettura, 27 novembre 2022
Il primo sciopero della storia
Immaginatevi una squadra di falegnami, pittori, intarsiatori, orafi, operai. Metteteli a lavorare in un villaggio-cantiere sull’arco di duecento giorni all’anno – di cui due di riposo ogni dieci, otto ore al giorno – per costruire un’opera faraonica (è il caso di dirlo). E considerate l’eventualità che non siano pagati per due mesi. Niente salario, cibo insufficiente. Risultato: sciopero. È successo davvero, è tutto scritto. In un papiro di 40,5 centimetri per 95, che risale a un periodo compreso tra 1187–1157 avanti Cristo, più probabilmente intorno al 1158, in cui si parla degli uomini che stanno costruendo le necropoli della Valle dei Re e delle Regine nell’Antico Egitto. Siamo a Deir el-Medina, nei pressi dell’attuale Luxor. Regna Ramses III.
Straordinaria testimonianza di oltre tremila anni fa, la prima che documenta una protesta dei lavoratori, il «Papiro dello sciopero», conservato nel Museo Egizio di Torino, diventa occasione per discutere di lavoro e diritti, di civiltà mediterranee antiche e moderne, temi che saranno affrontati durante il Festival del Classico, a Torino dal 1° al 4 dicembre. Se poi a parlarne sono Luciano Canfora, filologo e storico del mondo antico, e Christian Greco, egittologo che dirige il Museo Egizio torinese, quel papiro si trasforma in una finestra per affacciarsi su mondi affascinanti e lontani, arrivati fino a noi grazie a monumenti scritti e incisi, ad atti giuridici, commedie, cronache. La serrata pacifica dei lavoratori dell’Antico Egitto, lo sciopero del sesso di Lisistrata, la rivolta dei gladiatori: sono tutte manifestazioni di un desiderio di giustizia e uguaglianza. «Del resto Spartaco divideva il bottino in parti uguali».
Come è arrivato il Papiro a Torino?
CHRISTIAN GRECO — Torino è legata all’Antico Egitto dal 1626, anno in cui arriva in città la tavoletta detta «Mensa isiaca». La relazione si consolida con la spedizione di Vitaliano Donati nel 1759 e poi nel 1824 con l’acquisto della collezione di Bernardino Drovetti, oltre seimila pezzi comprati da Carlo Felice per 400 mila lire piemontesi, l’equivalente di 60 milioni di euro oggi, ma considerati i flussi finanziari dell’epoca si trattava di quasi tre quarti del bilancio del regno di Sardegna. Da quel momento Torino diventa una capitale dell’egittologia. Tra i reperti di Drovetti, console generale di Francia, compare dunque lo straordinario Papiro dello sciopero relativo al sito di Deir el-Medina, il «villaggio» voluto da Amenhotep I e Ahmose Nefertari, dove vivono le famiglie chiamate a costruire le tombe dei Faraoni.
Com’era la vita nel villaggio?
CHRISTIAN GRECO — Il livello di alfabetizzazione era più alto rispetto al resto del Paese. Sul cosiddetto «Giornale della necropoli» veniva registrato tutto, le visite di personaggi importanti, gli incidenti, lo stato di avanzamento dei lavori. E tra i documenti, abbiamo questo straordinario papiro che risale alla XX dinastia, cioè la fine del Nuovo Regno. La datazione è molto importante: per capire lo sciopero dobbiamo inquadrarlo in una fase critica del potere. Oggi diremmo che l’Egitto aveva speso troppo rispetto alle proprie possibilità, tanto che i lavoratori del villaggio, liberi e «assunti» dallo Stato, non venivano pagati da due mesi, da 60 giorni non ricevevano oli, vesti, cibo. Ecco perché smisero di lavorare e andarono a sedersi fuori dal tempio «dei milioni di anni» di Thutmose III chiedendo l’intervento del visir perché si facesse latore presso il «Faraone nostro signore» e fosse «riconosciuto a noi ciò di cui abbiamo diritto». Sì, è vero, fu una protesta molto pacifica. Del resto erano lavoratori speciali, «servitori nel luogo della verità», la necropoli. Si parla tanto di metaverso, ma un luogo simile lo avevano già inventato gli Egiziani: la tomba era una soglia. Una volta superata, il defunto viveva in un’altra realtà. Realizzare queste tombe rappresentava la radice stessa del mantenimento dello Stato. Ecco perché le rivendicazioni di quegli operai erano legittime. Ma in quella fase lo Stato si stava sfaldando, come testimoniano i «Robbery Papyri» del British Museum, tra cui il Papiro Abbott: nella seconda metà dell’età Ramesside coloro che avevano costruito i sepolcri dei sovrani iniziarono a depredarli, tanto che l’unica tomba più o meno intatta è quella di Tutankhamon di cui celebriamo il centenario della scoperta.
Esiste qualcosa del genere nell’antichità classica?
LUCIANO CANFORA — Classica no, ma bizantina sì. C’è una Constitutio de novis operibus molto interessante nel Corpus iuris giustinianeo che risale all’imperatore Zenone (regnò fino al 491 nella Pars orientis dell’impero). Sfuggita per tanti anni agli studiosi, la cita Karl Marx nell’Ideologia tedesca. S iamo nel 1845, con un Marx giovane e ruspante che fa cenno a questo testo dicendo che la sommossa operaia si era già verificata durante l’impero bizantino. In realtà non era una sommossa, ma uno sciopero. Come ha spiegato il bizantinista francese Bertrand Hemmerdinger, si trattava di operai impegnati in costruzioni edili complesse che però non ricevevano salario. Reagirono non solo smettendo di lavorare, ma bloccando la possibilità che altri subentrassero al loro posto. Zenone allora introdusse una normativa molto punitiva: chi si fosse comportato in quel modo non solo sarebbe stato allontanato dalla città ma, in caso di reiterazione, sarebbe stato frustato pubblicamente. Questo trattamento estremo fa immaginare che il fenomeno fosse frequente, donde la severità delle pene previste. È un frammento di informazione del 491 che parla di lavoratori liberi che organizzano un’azione di «tipo sindacale». Gli schiavi, invece, si ribellano e ricorrono alla violenza, all’insurrezione, come dimostrano le rivolte in Sicilia nel 135 a.C., la vicenda di Spartaco nel 73 a.C., eccetera.
Stavano meglio gli Antichi Egiziani...
LUCIANO CANFORA — Nel libro sesto del De rerum natura, Lucrezio evoca il fatto che nelle miniere d’oro del Pangeo, nella Tracia meridionale (la punta sud-est della penisola balcanica), le emanazioni sulfuree abbreviano la vita dei minatori. Ne parla in modo talmente solidale che sembra abbia conosciuto personalmente quel luogo. Poco dopo, al tempo di Cesare ormai vincente, c’è un autore, Diodoro di Sicilia, che si occupa delle condizioni di vita nelle miniere della Spagna e dell’alto Egitto e dice che lì la condizione umana è talmente feroce che questi lavoratori preferirebbero morire piuttosto che continuare a vivere.
Quello che è successo con il Papiro dello sciopero poteva verificarsi solo perché si trattava di operai specializzati e liberi?
CHRISTIAN GRECO — Sulla condizione del lavoro nell’Antico Egitto e sulla schiavitù dobbiamo davvero fare chiarezza. Nei momenti in cui non si poteva coltivare la terra, esisteva una sorta di corvée di Stato: si poteva essere chiamati per esercitare una serie di mansioni su determinate opere. Ricordiamo anche che nell’Antico Egitto esisteva un’economia redistributiva, si pagavano le tasse che venivano spartite. Non esisteva quello che noi chiameremmo un sistema di schiavitù. Tra l’altro a Deir el-Medina non vivevano solo artigiani e artisti, ma anche operai impegnati in lavori pesantissimi, come scavare nell’arenaria in condizioni estreme, soffocati dalla polvere e con il rischio di essere morsi dai cobra. C’era anche un sistema di guardiania con tre livelli di controllo, una forza di polizia pattugliava tutta Tebe occidentale, ma lo Stato era in crisi, si tolleravano forme di corruzione e, lo abbiamo scoperto recentemente grazie alla diagnostica per immagini, circa il 60 per cento dei sarcofagi era riutilizzato. Incredibile se pensiamo che erano il luogo di trasformazione del corpo. In questo contesto, lo ripeto ancora, va inserito il Papiro dello sciopero.
Istanze simili sono registrate nel mondo greco e romano?
LUCIANO CANFORA — Purtroppo per il mondo classico, fatta eccezione per l’Egitto, non disponiamo delle preziose testimonianze dei papiri. Possiamo contare invece su una grande quantità di epigrafi che però hanno un’altra finalità, «raccontano» leggi o rendono omaggio ad alcuni personaggi. Perciò dobbiamo avventurarci nelle congetture quando si tratta di condizioni economiche e sociali, spesso siamo costretti a ricorrere a ipotesi. Nel settimo libro della Guerra del Peloponneso, Tucidide fa notare che quando Sparta occupa un pezzetto di Attica, 20 mila operai specializzati, schiavi, fuggono e si vanno a rifugiare presso gli spartani, dal nemico. Perché la prima forma di ribellione è la fuga. E infatti Augusto nelle Res gestae si vanta di aver fatto recuperare decine di migliaia di schiavi restituendoli ai padroni. Nell’Atene del V secolo abbiamo un altro documento, il cosiddetto pseudo Senofonte, in cui un oligarca si lamenta del fatto che gli schiavi sono trattati talmente bene in Attica che non si riesce a distinguerli dagli uomini liberi. Addirittura si vestono alla stessa maniera. È evidente che si riferisce a schiavi urbani o domestici. Un altro frammento di informazione ci viene molto dopo da un autore di origine egiziana, Ateneo, che scrive alla fine del II secolo ma parla di fatti intorno al 140 a.C. Dice che i minatori del Capo Sunio, a sud di Atene, devastati da condizioni durissime, si ribellarono massacrando i guardiani per poi impadronirsi dell’acropoli del Sunio e creare uno staterello ribelle all’interno dell’Attica. Tutto questo in una stagione di forte instabilità nel Mediterraneo. Per capirsi: qualche anno dopo arriva la crisi graccana ma è già in corso la sommossa degli schiavi in Sicilia e dopo il 133 a.C. esplode la rivolta di Aristonico nello Stato di Pergamo. Contingenze che nel primo Novecento fecero lanciare allo studioso tedesco Ulrich Kahrstedt l’allarme dell’«internazionale comunista nel mondo mediterraneo». Una fantasia.
Che ruolo gioca il «celebre» scriba Amunnakht nel Papiro dello sciopero? Fu autore anche di altri documenti importanti conservati a Torino.
CHRISTIAN GRECO — Ha una posizione di responsabilità. Come i capisquadra ha un salario più elevato e può decidere mansioni e scatti di carriera. Soprattutto può dare giorni di ferie in cui gli operai sono autorizzati a esercitare la libera professione presso gli aristocratici. In particolare Amunnakht è stimato perché registra il continuo diminuire delle razioni di cibo e dimostra di avere attenzione per la crisi economica che incombe.
Amunnakht sciopera?
CHRISTIAN GRECO — No, lui si limita a documentare.
Possiamo parlare, partendo da questo episodio, di un embrione di coscienza sindacale?
LUCIANO CANFORA — Tanti filosofi si sono accapigliati su questo tema. Negli ultimi anni, per una sorta di moda, in particolare in Francia, gli studiosi tendono a togliere qualunque significato ideale alle rivolte degli schiavi nel mondo classico arrivando a dire che Spartaco guida una rivoluzione di tre anni, mette in pericolo la città di Roma solo perché vuole andarsene via dall’Italia. A me però sembra che la questione ruoti intorno alla libertà. Tanto più che siamo a conoscenza del fatto che Spartaco aveva stabilito che qualunque bottino fosse diviso in parti uguali, principio che allude a una visione egualitaria dei diritti delle persone che alcuni fingono di non leggere. Allora diciamo che questa coscienza spontaneamente si forma, ma non c’è nessun filosofo che la teorizzi. Della questione si occupa in parte il filosofo stoico Posidonio di Apamea secondo cui la miniera è una nefandezza, troviamo qualcosa anche in Seneca ma il loro paternalismo stoico è cosa diversa rispetto a una rivendicazione fondata su una coscienza di classe.
Come finisce lo sciopero del Papiro?
CHRISTIAN GRECO — Finisce che le istanze vengono accolte, che viene coinvolto il visir, che ci si rende conto che bisogna accelerare i pagamenti. Però in realtà ce lo vanno a dire i papiri di Londra come va a finire: siamo all’inizio della fine. Ormai questa società si sta disintegrando e poco tempo dopo il villaggio verrà addirittura abbandonato.
Che poi lo sciopero più famoso resta quello della «Lisistrata», la commedia di Aristofane andata in scena per la prima volta nel 411 a.C., in cui le donne si negano ai mariti per fermare la guerra.
LUCIANO CANFORA — L’ho detto e scritto: Lisitrata è un testo politico che fa capire che c’è nell’aria il tentativo di cambiare il regime democratico ad Atene. Si sta preparando il colpo di Stato – che dura qualche mese – secondo modalità e finalità molto simili a quelle che si incontrano nella commedia, per esempio la scena termina con un abbraccio affettuoso tra ateniesi e spartani: è quello, l’accordo con Sparta, l’obiettivo degli oligarchi quando prendono il potere, anche se durano poco. Purtroppo abbiamo solo undici commedie intere e su quelle ci sforziamo di capire. All’inizio delle Nuvole di Aristofane, uno dei protagonisti non riesce a dormire e dice: «Mentre io sono qui gli schiavi ronfano e io non li posso neanche picchiare perché c’è la guerra», e allora si intuisce la condizione non eccellente dello schiavo, che però è migliorata perché chi governa teme problemi interni come le agitazioni servili. Anche questo è un frammento di informazione che ci arriva da una commedia.