La Lettura, 27 novembre 2022
Nascita del cervello
Da non credere: un lavoro pubblicato su «Science» da ricercatori del Max Planck Institute e dell’Università di Dresda – fra i quali c’è anche Svante Pääbo, che proprio il 10 dicembre riceverà a Stoccolma il Premio Nobel per la Medicina o la Fisiologia 2022 – spiegherebbe come siamo diventati umani, cioè come il nostro cervello si è evoluto per essere in grado di fare quello che facciamo sul piano cognitivo, nella capacità di parlare e di avere rapporti sociali. Insomma, in una parola, perché siamo diversi dai nostri cugini più prossimi, i Neanderthal, ma anche dagli scimpanzé, dai bonobo e dagli altri primati non umani. Ma andiamo per gradi.
Gli scienziati guidati da Pääbo riportarono, per la prima volta nel 2014, la sequenza completa del genoma dell’uomo di Neanderthal: grazie a quel lavoro diventò possibile studiare i geni – e quindi le corrispondenti proteine – di quegli ominidi per provare a capire come e in che cosa si differenziassero eventualmente da quelli della nostra specie. Detto, fatto. Gli scienziati stanno valutando una per una queste modificazioni, con un obiettivo solo: capire perché Homo sapiens è rimasta l’unica specie umana sulla Terra, surclassando in termini di capacità intellettuali Neanderthal, gli altri ominidi e i primati non umani. L’attenzione è presto caduta su un gene di particolare interesse: si chiama TKTL1 e codifica per una proteina che, guarda caso, ha a che vedere con lo sviluppo del cervello fetale e con specifiche cellule progenitrici dei neuroni chiamate glia radiale esterna.
Intorno a 500 mila anni fa gli antenati di Neanderthal e di Homo sapiens migravano da una parte all’altra dell’Africa e dell’Eurasia, ma a un certo punto e in un modo abbastanza improvviso il cervello di alcuni di loro cambia, al punto da dare alle popolazioni antenate dell’uomo moderno capacità cognitive che i Neanderthal apparentemente non avevano o mostravano solo in modo sporadico.
Cosa può essere successo?
Il gene di cui abbiamo detto prima, TKTL1, in modo del tutto casuale è mutato ed è stata proprio quella mutazione a consentire a chi ne ha beneficiato di superare, quanto a prestazioni cognitive, non solo Neanderthal e Denisova (una specie sorella di Neanderthal che viveva in Asia centrale), ma anche tutte le altre specie umane che centinaia di migliaia di anni fa popolavano la nostra Terra.
Va precisato che quando noi diciamo di essere diventati più «intelligenti» stiamo applicando un metro umano da Homo sapiens (capacità di astrazione, immaginazione, creatività), non una scala assoluta di superiorità. I Neanderthal non erano quasi-umani, non erano una versione approssimata di noi: erano diversi, rappresentavano un modo alternativo di essere umani, di essere intelligenti e di adattarsi al mondo. Sono sopravvissuti su questo pianeta per più di trecento millenni, mentre noi dobbiamo ancora dimostrare di saper raggiungere quel traguardo.
C’è un dettaglio però che lascia senza parole (o quantomeno che ha lasciato senza parole noi): la versione umana della proteina codificata da quel gene – il risultato cioè della mutazione – è diversa dalla corrispondente proteina di Neanderthal per un amminoacido soltanto (uno solo!) dei 540 che la compongono. «E se fosse proprio questa modificazione che, durante lo sviluppo, interferisce in qualche modo con la struttura e la funzione del cervello?», si sono chiesti gli scienziati. Contemporaneamente hanno pensato che l’area in cui questo cambiamento doveva essere accaduto – ammesso che fosse proprio così – non poteva che essere la neocorteccia (la regione più esterna della corteccia cerebrale, responsabile delle funzioni cognitive) che nel tempo si è diversificata in tutti i mammiferi crescendo in dimensioni e densità.
Ammettendo che le cose stiano così, questo sarebbe il vantaggio che l’evoluzione a un certo punto ha conferito a Homo sapiens rispetto alle altre specie. Potrebbe essere insomma la pistola fumante, la prova dirimente dell’unicità umana che in tanti stavano cercando da decenni, ma come dimostrarlo? Per prima cosa i ricercatori hanno provato a inserire la versione umana di TKTL1 nel cervello di embrioni di topi e furetti, ed è stato emozionante accorgersi che questi embrioni modificati avevano più progenitori neurali di quanti non ne avessero gli animali normali impiegati come controllo dell’esperimento. Chi era critico (e ce ne sono sempre tanti quando scopri qualcosa di nuovo, inaspettato o sconvolgente, come in questo caso) ha preso a dire che topi e furetti non sono umani e che di per sé quell’esperimento non poteva dimostrare che il cambiamento nella proteina codificata da TKTL1 bastasse a rendere l’uomo moderno più intelligente dei Neanderthal.
Ma quelli del Max Planck e i loro colleghi di Dresda non si sono scoraggiati, perché sapevano bene che sono proprio le cellule progenitrici della glia radiale esterna le responsabili dell’espansione e dell’architettura della neocorteccia. Inoltre, si sa da tempo che le potenti capacità cognitive degli esseri umani, se rapportate a quelle degli scimpanzé e dei bonobo per esempio, dipendono dall’architettura della neocorteccia e in particolare dal numero e dalla funzione dei neuroni. Così quei ricercatori hanno ingegnerizzato la neocorteccia di feti umani in modo da spegnere il gene TKTL1 e hanno scoperto che il tessuto fetale umano così modificato formava in un primo momento meno progenitori neurali e poi meno neuroni di quello che succede normalmente.
Ma non si sono accontentati: hanno anche creato organoidi – repliche in miniatura di organi e tessuti umani – con cellule della neocorteccia cerebrale umana. Gli organoidi si ottengono con cellule staminali che sono indotte a essere pluripotenti prima e poi diventano capaci di formare qualunque cellula del nostro organismo, se sottoposte a certi accorgimenti di laboratorio. Nelle cellule staminali pluripotenti hanno inserito, tramite genome editing, la versione ancestrale del gene TKTL1, quella di Neanderthal per intenderci, e da queste cellule hanno derivato organoidi cerebrali. Ebbene, il risultato non cambia: questi organoidi, o mini-cervelli «neanderthalizzati» come dicono i ricercatori, generavano in un primo momento meno progenitori neurali e poi meno neuroni rispetto a quelli di Homo sapiens.
Questo elegante risultato è ancora più sorprendente se si considera che da tempo i dati paleontologici ottenuti dalle ossa del cranio suggeriscono che i Neanderthal avevano un volume del cervello comparabile con quello degli esseri umani moderni, se non leggermente superiore data la loro stazza. Dunque la differenza non stava nel volume, ma nella produzione di neuroni neocorticali e nell’organizzazione interna del cervello, che notoriamente non lasciano tracce fossili. L’unico modo per riconciliare i dati è dunque ipotizzare che la neocorteccia di Homo sapiens sia più densa o eventualmente si estenda a una porzione più grande del cervello. Questa informazione non l’abbiamo ancora, ma ci sarà presto.
Insomma, pare di capire che una piccola mutazione, avvenuta per caso, in un singolo amminoacido della proteina abbia sortito conseguenze enormi: il lobo frontale degli umani moderni durante il processo di sviluppo ha cominciato a contenere più neuroni di quello dei Neanderthal.
Questo amminoacido è l’arginina, presente nella proteina codificata da TKTL1 praticamente in tutti gli esseri umani moderni, ma non negli ominidi che si sono estinti. Neanderthal e Denisova, scimpanzé, gorilla e tutti gli altri hanno una lisina, al posto dell’arginina, nella stessa posizione sulla stessa proteina.
C’è ancora chi è scettico (come sempre). Siamo sicuri che le cellule dell’organoide, quelle che vengono da cellule staminali indotte a essere pluripotenti, siano proprio come quelle del nostro cervello? Non solo, la comparazione fra il genoma di Neanderthal e quello dell’uomo moderno è stata fatta sinora negli europei: non potrebbe essere che popolazioni moderne di altre parti del mondo abbiano conservato la mutazione di Neanderthal? Non è così facile rispondere a questa domanda, perché la versione arcaica di TKTL1 è rara negli uomini di oggi e non ci sono evidenze che possa causare una malattia o difetti cognitivi. Per ora i ricercatori del Max Planck stanno affrontando il problema in un altro modo: vogliono modificare geneticamente topi e furetti con la forma umana del gene e studiare il loro comportamento comparandolo a quello di animali che esprimono invece la forma ancestrale del gene, quella di Neanderthal. Se oltre ad avere una corteccia diversa, quei topi avessero anche un comportamento diverso, sarebbe una prova robusta del rapporto fra mutazione e comportamento.
Chi ha avuto la pazienza di seguirci fin qui potrebbe chiedersi qual è la ragione per cui una modificazione genetica così minima modifichi in modo tanto profondo la corteccia corticale. Nella scienza bisogna sempre comprendere anche il meccanismo del fenomeno osservato. Il gene TKTL1 codifica per una proteina, un enzima a essere precisi, che ha a che fare con la via metabolica del pentoso fosfato, capace di generare acetil-coenzima A, coinvolto a sua volta nella sintesi degli acidi grassi. E i ricercatori del Max Planck sono anche riusciti a dimostrare che soltanto TKTL1 umano, ma non quello arcaico, è capace di aumentare la quantità di acetil-CoA nei progenitori neuronali.
Ecco con ogni probabilità spiegato perché è solo la versione umana di TKTL1 che fa proliferare i progenitori neuronali, i quali per svilupparsi adeguatamente e formare i caratteristici prolungamenti che li connettono l’uno all’altro hanno bisogno di una grande quantità di acidi grassi.
In molti restano perplessi all’idea che una singola mutazione possa spiegare l’unicità evolutiva di Homo sapiens, ma è probabile che quella arginina al posto di una lisina sia stata un ingrediente essenziale nella complessa ricetta della nostra specificità. Una piccola differenza che ha fatto la differenza. Non è escluso, poi, che gli effetti a cascata di quella mutazione sul comportamento, sul linguaggio e sull’organizzazione sociale possano spiegare perché Homo sapiens uscendo dall’Africa, dopo avere convissuto ed essersi ibridato con i Neanderthal e i Denisova in Eurasia, quindi in una situazione di apparente equilibrio demografico, li abbia poi soppiantati in tempi recenti, rimanendo l’unica specie sopravvissuta del genere Homo sulla Terra da quaranta millenni a questa parte.
Tutto qua? Non lo sappiamo, ma è verosimile che il meccanismo alla base della capacità di TKTL1 umano di contribuire allo sviluppo della neocorteccia sia una tessera del puzzle e abbia accelerato nella nostra specie l’evoluzione di quei caratteri che ci hanno reso quello che siamo: la capacità di parlare per prima cosa; e poi la curiosità, la creatività, l’essere animali sociali capaci, quasi sempre, di controllare l’aggressività e di vivere in gruppo, fino ad arrivare a società organizzate. Insomma, forse senza quell’arginina che ha sostituito la lisina dei Neanderthal e degli scimpanzé non ci sarebbero i filosofi e i poeti, e non avremmo avuto Mozart ma nemmeno Darwin e Einstein.