La Lettura, 26 novembre 2022
Lo stupro mai tradotto di Ovidio
«Abbiamo bisogno di donne che traducano i classici, di minoranze che traducano i classici. Dobbiamo allargare lo sguardo, per far luce su aspetti troppo a lungo negati da traduttori, quasi sempre maschi bianchi, che propugnavano una lettura non solo maschilista ma riduttiva del testo originale». Parlare di stupro senza eufemismi. Lo faceva Ovidio nelle Metamorfosi, lo fa, in una nuova traduzione inglese uscita da poco negli Stati Uniti, la classicista Stephanie McCarter. Una traduzione rivoluzionaria e modernissima che rende giustizia non solo ai personaggi dell’opera, ma a Ovidio stesso. «La Lettura» ha intervistato McCarter analizzando con lei un passaggio della sua traduzione.
Quando ha iniziato a pensare che a Ovidio servisse una nuova traduzione?
«Insegno Ovidio da quasi vent’anni, dopo aver studiato i classici greci e latini prima in college, all’Università del Tennessee a Knoxville, e poi all’Università della Virginia, dove ho conseguito un master e un dottorato in Lettere classiche. Quando sono arrivata a Sewanee (l’università del Sud dove insegna, ndr) ho messo a punto un corso sulle donne e gli studi di genere nel mondo antico. Era il 2008, e stavamo leggendo le Metamorfosi tradotte da Rolfe Humphries (1955), in particolare, nel Libro IV, lo stupro di Leucotoe. Ero piuttosto confusa: la traduzione non comunicava che fosse stata stuprata. Ho scritto un saggio, “Come i traduttori delle Metamorfosi hanno trasformato una violenza sessuale in un incontro consensuale”, che chiudevo dicendo: “È tempo che un’altra donna provi a tradurre Ovidio”. Non avevo idea che sarei stata io. Un giorno ho ricevuto una mail da Elda Rotor, editrice di Penguin Classics. Sono caduta dalla sedia».
Perché?
«Perché tradurre Ovidio per un editore importantissimo è storicamente appannaggio di gente che insegna nelle università più prestigiose, gente che quelle università ha frequentato e che, dopo una brillante carriera, si dedica alle traduzioni. Io ho fatto le scuole pubbliche, insegno in un piccolo college del Tennessee, sono degli anni Settanta. Soprattutto, quei traduttori erano tutti maschi. Solo una donna prima di me, la scozzese Mary Innes nel ’55, aveva tradotto in inglese le Metamorfosi complete per Penguin, versione che ho amato ma sminuita nelle recensioni del tempo perché in prosa, come si faceva allora, e perché Innes non era Humphries, già noto come poeta».
Guardiamo il passaggio che, nel Libro XII, riguarda la giovane Ceni, vergine stuprata dal dio Nettuno e da lui trasformata in maschio dietro sua richiesta. Una prima espressione che colpisce nella sua traduzione è «forced rape». La parola «rape», stupro, contiene già la violenza e la non consensualità: perché enfatizzarla aggiungendo «forced», e com’è diversa la sua traduzione da quelle precedenti?
«Perché è Ovidio stesso a usare quella parola: vis, forza, da cui il termine inglese per “violenza”. Una parola chiarissima, l’accusativo vim, che implica il fare del male fisico. Le precedenti traduzioni in inglese, invece, erano piene di eufemismi. A.D. Melville, per esempio (Oup, 1986) scrive che il dio del mare ravished her. Un’espressione, ravishment, rapimento nel senso di estasi, estremo piacere, che si trova spesso nei romanzi rosa e suggerisce un incontro eccitante. Melville confonde lo stupro con il sesso, mentre Ovidio è molto netto. Anni prima, a metà del Novecento, Horace Gregory parla di “montare”: “Il dio del mare la montò”, scrive, aggiungendo che Nettuno “era molto compiaciuto e pensava lo fosse anche Ceni”. Ma questo vuol dire vedere le cose dal punto di vista dello stupratore, mentre Ovidio è molto chiaro: Ceni è traumatizzata dall’esperienza al punto da chiedere una metamorfosi. Né la traduzione di Gregory né quella di Melville e altri riflettono il modo in cui si parla di violenza sessuale oggi, mentre per me era cruciale usare un linguaggio contemporaneo, tanto più che quel linguaggio è già presente in Ovidio. Nei primi anni Duemila, Charles Martin (Norton) usa sì la parola “forza”, “si forzò su di lei”, poi però rovina tutto con ravishing the maiden, altro eufemismo che contiene l’arcaico maiden, giovane vergine».
La fanciulla che arriva illibata alla prima notte di nozze. Ma non c’è alcun matrimonio: Ceni viene stuprata.
«Esattamente. Martin pensa alla “prima volta”, e in Ovidio c’è sì una prima volta, novae Veneris scrive, usando una metonimia (“Venere” per “sesso”, ndr), ma è di Nettuno: i gaudia, cioè le gioie, termine che suggerisce un orgasmo sessuale, sono suoi, non di Ceni. Nettuno che trae piacere dal non aver mai fatto sesso con Ceni prima di allora e anche dallo star stuprando una vergine. Invece, a metà anni Cinquanta, A.E. Watts descrive un Nettuno deliziato dal “nuovo amore” e di “amore” parla anche Melville trent’anni dopo».
Quindi, mentre Ovidio era chiarissimo duemila anni prima, i suoi traduttori, maschi, lo hanno interpretato da un punto di vista maschile e maschilista, liquidandone contenuti e senso.
«Esatto. Qualsiasi traduzione che si rispetti richiede un’analisi approfondita del testo. Che avrebbe portato a riconoscere quanto Ovidio fosse interessato alla prospettiva della vittima. Ai traduttori, invece, delle vittime non importa nulla».
Un’altra parola che lei usa è «assault», aggressione: «Una simile aggressione impone/ una grande richiesta», dice Ceni a Nettuno.
«Ovidio parla di iniuria, da cui l’inglese injury. Nell’Antica Roma si poteva portare qualcuno in tribunale per stupro come iniuria. Utilizzare assault è fondamentale, sia perché è uno dei termini della moderna discussione sulla violenza sessuale (sexual assault) sia perché evoca qualcosa di molto violento che è già in Ovidio. Invece Gregory fa dire a Ceni: “Non prenderò mai più un uomo”. Come se fosse stata lei a prendere Nettuno, stravolgendo il testo originale. Perlomeno Melville parla di wrong, riconoscendo che qualcosa di brutto sia stato fatto a Ceni. Peraltro, ciò che Gregory traduce con “prendere un uomo” è pati, “subire” nella mia traduzione, che nel vocabolario di allora poteva già suggerire uno stupro. Un altro errore che fanno i traduttori del passato è spostare l’attenzione su Nettuno, mentre a Ovidio interessa Ceni».
Al di là dei costumi delle epoche in cui le «Metamorfosi» sono state tradotte, ad esempio la «pruderie» anni Cinquanta, perché questi eufemismi se la violenza sessuale era già in Ovidio?
«Un prodotto del nostro disagio. Mentre io credo che occorra dire apertamente la parola “stupro” per riconoscerlo. Quando i traduttori parlano di ravishing, non è perché sia così in Ovidio, ma perché così ci è stato insegnato a descrivere la violenza sessuale. E anche perché si è affermata nel tempo una visione di Ovidio molto riduttiva, e cioè che fosse un poeta sensuale e giocoso, mentre era molto di più. Ovidio non avallava affatto né minimizzava la violenza sessuale: ne era critico. Poteva sì essere giocoso ma aveva anche un lato molto serio. È impossibile parlare di Ovidio senza centrare la discussione sulla violenza sessuale».
Un ultimo verso: «Make me not female», dice Ceni. Letteralmente: rendimi non femmina.
«Dopo lo stupro, Ceni chiede di perdere la forma femminile, e Nettuno la trasforma in maschio. L’idea è che un corpo maschile sia fisicamente meno vulnerabile a uno stupro. Mentre molti traduttori parlano genericamente di “donna”, “femmina” si riferisce a una condizione biologica, diversa dall’identità di genere. Identità di genere che in Ceni è interessante già prima dello stupro. Non vuole sposarsi, non ha interesse per il rispetto delle norme eterosessuali che ci si aspetta dalle donne. Gli antichi sapevano che il genere è qualcosa che si esprime e che non sempre risiede nel corpo. I Romani avevano una comprensione sofisticata dell’identità: per loro mascolinità non era semplicemente avere un fallo ma partecipare ad attività associate ai maschi, come caccia, guerra o sesso penetrativo. Ovidio ci invita a considerare la relazione tra identità e forma. Quando Dafne viene trasformata in albero, è ancora lì? La sua identità è ancora intatta? È modernissimo».