La Lettura, 26 novembre 2022
Intervista a Sergio Pagano. Racconta Pio XII
«Da questi fogli emergono due grandi uomini, Pio XII e Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, suo principale collaboratore, dediti fino allo spasimo al servizio della Chiesa. E fanno capire bene come la Segreteria di Stato vaticana allora fosse il cervello e il motore del governo della Santa Sede. Oggi, purtroppo, non è più così». Il barnabita monsignor Sergio Pagano, da un quarto di secolo prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, dal 2019 rinominato «Apostolico», tuttora avvolto da un alone di mistero, rispetto e timore, accarezza i due tomi intitolati In quotidiana conversazione. Sono 1.850 «fogli di udienza» che raccolgono gli appunti presi dall’allora numero due della Segreteria di Stato, il bresciano Montini. Vanno dal 5 luglio del 1945 al 20 novembre del 1954, alla vigilia del passaggio di Montini a Milano come arcivescovo. Oltre 1.200 pagine, precedute da una introduzione nella quale il prefetto vaticano spiega e inquadra storicamente annotazioni altrimenti incomprensibili.
Da archivista di razza, appena accolto nella prestigiosa e laicissima Accademia nazionale dei Lincei, Pagano ha esaminato e studiato questi foglietti scritti a matita, e staccati da Montini, spiega minuziosamente, da taccuini marca Velox della «F. Selvatico e figli. Premiato stabilimento cartotecnico di Milano». Il prefetto non omette nemmeno le dimensioni: 15 centimetri e mezzo per 11 e mezzo. Accompagna quelle note scarne con riferimenti che lasciano indovinare la platea sterminata dei rapporti e dei contatti di Pio XII e del suo fidato collaboratore: di fatto, un segretario di Stato ombra, apprezzatissimo dai diplomatici. E spiega che quegli appunti servivano a «fermare la mente del pontefice», senza esprimere giudizi o valutazioni di alcun genere. Salta agli occhi, tuttavia, la mancanza di qualunque traccia che copra il periodo della Seconda guerra mondiale. Eppure, Montini dal 1942 aveva acquisito un peso rilevante, nella gerarchia ecclesiastica. Perché? È un buon punto di inizio per questa intervista a «la Lettura» che monsignor Pagano ha accettato di fare.
Colpisce questa assenza del periodo che va dal 1939 al 1944. Lei come la spiega?
«Ammetto che ha colpito anche me. E mi sono chiesto come mai. Immaginiamo quante notizie avremmo potuto avere sugli anni della Seconda guerra mondiale. Dal 1942 in poi, Montini contava nella cerchia più stretta dei collaboratori di Pio XII. O lui non scriveva ancora gli appunti perché fino all’agosto del 1944 era vivo il segretario di Stato, Luigi Maglione, o non li teneva per le udienze della Segreteria di Stato, oppure, se li ha scritti, li ha portati con sé a Milano quando è diventato arcivescovo, alla fine del 1954».
Lei avrà indagato su questo. È un periodo cruciale: la guerra, i rapporti con il nazismo la questione dei silenzi di Pio XII sullo sterminio degli ebrei…
«Certo, ho fatto ricerche dovunque. Ho anche chiesto all’attuale sostituto della Segreteria di Stato, Edgar Peña Parra, di verificare i documenti più riservati, conservati nella sua cassaforte. Ho scritto all’archivio dell’Istituto Paolo VI a Brescia. Ho sentito i gesuiti di “Civiltà cattolica”, pensando che magari li avesse ceduti a loro. Ma non c’è nulla. O non esistono, oppure, per la delicatezza delle questioni legate alla guerra e per il timore che alcune notizie fossero equivocate e strumentalizzate, Montini li consegnò forse a qualcuno di sua assoluta fiducia a Milano, oppure andarono dispersi. Certo rincresce. Se esistevano, non averli potuti vedere e consultare è un vulnus. Pensi alla fase di Roma città aperta, la partenza dei nazisti dalla capitale, il modo in cui controllavano il Vaticano. Quanto ai silenzi di Pio XII: è indubbio che ci siano stati. Chi fa apologetica a prescindere da essi non rende un buon servizio alla Chiesa. Ho studiato bene le carte su di lui. Ma i suoi silenzi vanno inquadrati in quella fase storica, e valutati insieme a tutte le iniziative che prese per difendere gli ebrei. Su questo aspetto mi pare che la verità storica stia venendo fuori, e riconosca quanto ha fatto anche di positivo».
Ha potuto appurare se il trasferimento di Montini a Milano avvenne dopo che una commissione segreta suggerì al Papa di farlo andare via perché era diventato troppo potente?
«A me non risulta l’esistenza di questa commissione composta da due, tre cardinali per giudicare Montini. Il problema era quello dei suoi rapporti con l’Azione cattolica di Luigi Gedda. Montini difendeva la scelta della Dc di Alcide De Gasperi di non allearsi con i fascisti per la giunta comunale di Roma, e su questo si scontrò con Gedda e una parte della Curia. Ma la notizia, che fu data dal cardinale Siri di Genova, da quanto mi risulta è inconsistente. Non ce n’è traccia nei documenti della Segreteria di Stato. E mi pare difficile che Pio XII prendesse una decisione sul nulla. Era una voce infondata messa in giro da Siri quando Montini era già morto. D’altronde, Siri è lo stesso cardinale che morì facendo credere di avere avuto la chance di essere eletto in Conclave: chance che a mio avviso non ebbe mai. È stato un cardinale sempre molto attento a fare rivelazioni in modo tale che nessun vivente potesse smentirlo».
È un fatto che il futuro Papa Paolo VI fosse inviso a una parte della Curia e a cattolici influenti.
«Certo, perché era potente, efficiente e fedele al Papa. Basta leggere quanto dicevano di lui gli ambasciatori, affranti perché era stato mandato a Milano. In certi ambienti conservatori della Curia c’erano invidie da tempo. Ed è vero che Pio XII ricevette pressioni crescenti per allontanarlo. Nel 1953-54 Montini sentiva e capiva, soffrendo, che si moltiplicavano le voci a lui avverse, i tentativi di emarginarlo».
E Pio XII lo spedì a fare l’arcivescovo di Milano…
«Era morto il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, e questo gli permise di nominarlo arcivescovo al suo posto. In questo modo placò la pancia invidiosa della Curia, e gli offrì una sede prestigiosissima come il vertice della Chiesa ambrosiana».
Vuol dire che non fu un «promoveatur ut amoveatur», ma il contrario: rimosso per promuoverlo?
«Io penso di sì. Pio XII lo stimava moltissimo, in fondo lo aveva formato lui ed era il suo collaboratore più stretto. Tanto che qualcuno si lamentava: mandandolo a Milano lo prepara a diventare papa… Come effettivamente fu».
Nella sua introduzione lei elenca tra i moltissimi argomenti toccati le «malattie del Papa», argomento sempre misterioso. Di che si tratta?
«Negli ultimi anni di vita Pio XII era malato. Aveva i famosi singhiozzi che gli impedivano di parlare, potevano durare anche uno o due mesi. E a volte lo costringevano a sospendere le udienze».
E i medici che dicevano?
«Non ho trovato referti medici. Sembra che dipendesse da problemi di stomaco, che rendevano difficile perfino alimentarlo».
Ci sono anche diversi riferimenti a cinema, radio e tv.
«Pio XII aveva compreso l’enorme portata dei mezzi di comunicazione di massa. Era ossessionato dal loro impatto. Censurò un film di una coproduzione americana e tedesca su Lutero, perché era contro il cattolicesimo. Si allarmava se alla radio erano invitati ai dibattiti politici comunisti. E fu il primo a fare entrare la tv in Vaticano. I francesi gli regalarono un televisore, e lui accettò di farsi riprendere. Ma decideva lui le pose, lo sfondo: era il regista di sé stesso. Anche i gesti, le pause dei suoi discorsi erano studiati. Era un perfezionista».
Dai suoi due volumi emerge una Segreteria di Stato centrale, nel governo vaticano.
«È vero. Era il motore del governo della chiesa, il cervello del Vaticano, che si muoveva attraverso le Congregazioni, i tribunali della curia, i nunzi nel mondo, la rete delle parrocchie. Col Papa ultimo referente».
Secondo lei allora la Santa Sede contava più di adesso?
«Sì ma erano altri tempi. Esisteva una Chiesa organizzata e unita. Oggi è più divisa. Per Pio XII la Chiesa era la società perfetta, depositaria della verità, chiamata a plasmare il mondo o almeno a ispirarlo ai valori evangelici. E la macchina politica, religiosa e diplomatica rifletteva questa visione. Se c’era il timore dell’influenza dei comunisti in una sperduta zona della Sardegna, Pio XII era in grado di conoscere con chiarezza dai parroci la situazione e intervenire. I comunisti erano preoccupatissimi, ma i governi europei erano attenti, curiosi e rispettosi: anche i britannici che sembravano disattenti sapevano molte cose. E gli americani».
Con gli Stati Uniti il rapporto di Pio XII era stretto: si capisce anche dal suo libro.
«Era un rapporto ambivalente. Da una parte, Pio XII li teneva, come dire, a distanza perché temeva l’influsso delle sette protestanti, molto attive e nemiche della Chiesa di Roma. In più, quando venivano esponenti americani in udienza stava attento a evitare riferimenti alla politica. Ma in parallelo capiva che dopo il 1945 il nuovo impero dell’Occidente con il quale fare i conti era quello, non più la Gran Bretagna».
Quale è stata l’evoluzione della Segreteria di Stato come centro nevralgico del potere papale?
«Fino a Paolo VI tutto il governo era concentrato nella Segreteria di Stato. Ed era una macchina che funzionava bene. Poi è cominciato un progressivo ridimensionamento. Hanno assunto maggiore potere le conferenze episcopali, le congregazioni romane. E dopo il Concilio Vaticano II, il fenomeno si è accentuato. La Segreteria ha ripreso un po’ di centralità con Giovanni Paolo II. Poi, con fasi di oscillazioni, ha perso potere e prestigio. E l’ultima riforma della Curia ha ufficializzato il ridimensionamento».
Che cosa l’ha colpita di più, studiando queste carte?
«La figura di Pio XII, un uomo titanico. E la sua capacità di scegliere Montini e prepararlo al papato. Pio XII si è speso fino all’ultimo per la Chiesa: aveva una forte coscienza di essere il Papa. Guidava la barca, teneva fermo il timone. E studiava sempre, perché voleva mostrarsi aggiornato su tutto. Aveva capito che dopo la guerra il mondo stava cambiando. Forse non ci è riuscito ma ha tentato di interpretare i cambiamenti, con tutte le sue forze. Per me è stato uno dei governanti più illuminati della sua epoca».