Tuttolibri, 26 novembre 2022
Intervista a Colum McCann. Parladel suo Nureyev
«La mia tecnica di ballo è un po’ arrugginita, ma non vedo l’ora di parlarne», mi risponde Colum McCann quando gli scrivo per fissare la nostra intervista. Ed è comprensibile: La sua danza, appena rieditato da Feltrinelli, era uscito per la prima volta vent’anni fa, nel 2003, in occasione del decennale della morte di Rudolf Nureyev. Del ballerino più grande di tutti i tempi – larger than life dicono appropriatamente gli anglofoni – La sua danza è una biografia romanzata, in quella forma ibrida – dove tutto contamina tutto: invenzione, realtà, bugie, storia – che è la cifra di McCann e che sarebbe stata poi perfezionata nei libri successivi, da Questo bacio vada al mondo intero (che nel 2009 vinse il National Book Award) a TransAtlantico (2013) fino ad Apeirogon (2020), che è qualcosa di molto vicino a un capolavoro.
Irlandese naturalizzato americano da molti anni, McCann, 57 anni, ha da poco finito di scrivere un libro (in uscita nel 2024) sul giornalista giustiziato in Siria dallo Stato Islamico nel 2014 James Foley, raccontato dalla madre Diane. «Siamo anche andati a trovare in prigione uno dei suoi assassini e abbiamo parlato con lui per due giorni. Due giorni! Il libro inizia da lì», mi dice da un angolo pieno zeppo di cose del suo ufficio a New York. A un tratto da una mensola cade qualcosa, la raccoglie, è la foto dei suoi genitori, e io lo prendo come un segno su come finire questa intervista.
Qual è stata l’ultima volta che ha ballato?
«Che tipo di ballo?».
Qualsiasi.
«La settimana scorsa con i ragazzi di una scuola, ma solo per divertirci niente di serio. Ballare mi piace, ma non sono capace. Del resto, mi vede? Sono il tipico irlandese che alle feste al massimo può cantare».
Che effetto le fa parlare di un libro scritto oltre 20 anni fa?
«È strano, ma emozionante, perché mi obbliga a tornare indietro e ricordare. Questa mattina pensavo: è stato un libro autentico? È durato? Questo credo di sì, perché parla anche del momento in cui ci troviamo ora. Le domande che solleva, su ciò che è vero e ciò che non lo è, credo siano ancora più importanti oggi di quanto lo fossero allora».
Perché Nureyev?
«Avevo da poco finito di scrivere Everything in This Country Must, un libro piccolo e locale sull’Irlanda del Nord, e stavo cercando una storia universale. Perché proprio questa? Se ha tempo, glielo racconto».
Certamente.
«Un giorno mi è capitato di incontrare Jimmy, un amico cresciuto a Dublino nei miei stessi anni, ma in maniera molto diversa: mentre io appartenevo alla classe media, lui aveva abitato nei grattacieli poveri dei sobborghi, una specie di “Gomorra”. In quella occasione, Jimmy mi aveva raccontava di quando, nel 1974, suo padre, che tornava sempre a casa ubriaco, una sera era rientrato con un televisore per vedere la Coppa del Mondo, ma non essendo riuscito a farlo funzionare si era sfogato su di lui, che si era preso le peggiori botte della sua vita. Il giorno dopo, i compagni di scuola gli avevano suggerito di procurarsi una prolunga e provare a spostare la tv sul balcone. Così, assieme ai fratelli alla fine erano riusciti ad accenderla. Indovini qual è stata la prima immagine che avevano visto? Nureyev, che ballava in quel suo modo completamente nuovo. Da allora, mi ha raccontato, Nureyev era diventato per lui un’ossessione attorno alla quale aveva poi costruito gran parte della sua vita. Che bellissima storia, mi ero detto, la vita di un bambino della classe operaia di Dublino che veniva influenzata da uno come Nureyev. Lì ho iniziato a pensare di volere raccontare la storia di questo personaggio, ma attraverso gli sguardi di persone “periferiche”, perché la Storia appartiene a loro esattamente come ai critici d’arte».
Una delle caratteristiche della sua scrittura, esplosa nel suo ultimo romanzo “Apeirogon”, è proprio la molteplicità dei punti di vista.
«Vero, eppure ora sto scrivendo un nuovo libro e ho deciso di tornare a un punto di vista singolare, vecchio stile».
Questa è una notizia. Come mai?
«Mi è sempre interessata la natura caleidoscopica dell’esperienza umana, e da più angolazioni riuscivo a raccontarla, più profondamente mi sembrava di cogliervi delle verità. Le verità umane possono essere molteplici, ma nel tempo ho capito che esiste una verità fondamentale, che è quella del cuore umano. Dove si trova? Non certo nei fatti, che sono “mercenari”, abusati e spediti un po’ dove si vuole. Il cuore si trova nel dubbio, nel non sapere, nel disordine. In definitiva, nelle cose difficili da capire, come la pietà, la violenza, il sacrificio. Capito questo, mi è sembrato di essere di nuovo pronto a raccontare da un punto di vista singolo, e penso che anche il mondo in un certo senso lo sia».
Per fare ricerche su Nureyev, alla fine degli anni Novanta è andato in Russia, dove era appena stato eletto un presidente di nome Vladimir Putin. Che ricordi ha?
«Di un Paese in fermento, sulla cresta dell’onda, anche se ancora brutalmente povero. Andai a Ufa, la città natale di Rudolf (oggi capitale della Repubblica di Baschiria, oltre 1500 chilometri da Mosca, circa 500 dal Kazakistan, ndr): tuguri, baracche, qualche grattacielo. Poi a San Pietroburgo, bellissima, piena di cose che stavano accadendo, grandi discoteche e una scena musicale underground molto interessante. Assieme alle persone con le quali stavo viaggiando, una volta abbiamo cercato di andare in un gay club, solo che a chiunque chiedevamo informazioni ci diceva che in Russia i gay non esistevano. Poi, naturalmente, lo abbiamo trovato. Ecco, tutto questo era proprio sul punto di esplodere. E ora per me è sconcertante vedere come ci si sia potuti allontanare da tutto ciò e tornare indietro in così poco tempo».
Il suo primo lavoro è stato quello di giornalista, come suo padre.
«È stato quel mestiere a prepararmi a essere uno scrittore. Ho imparato ad ascoltare. Ho imparato le scadenze. Ho imparato il valore dell’onestà, della correttezza. A volte prendo un buon articolo e lo metto vicino a un grande romanzo del XX o XXI secolo: la narrativa è diversa, ma non migliore del giornalismo. Credo che si riduca tutto al linguaggio, al modo in cui si decide di voler dire o no la verità».
Le interessano le persone che cercano di riparare il mondo, ha detto. Chi sono?
«Milioni. Quando mi guardo intorno vedo che, in realtà, la stragrande maggioranza delle persone ha buone intenzioni e cerca di fare cose buone, mentre quelli che causano dolore a tutti gli altri sono in realtà una piccola minoranza. Le prime sono un movimento coeso? No. Può diventarlo? Può darsi. Certo è che con quello che sta accadendo in questo momento abbiamo davvero bisogno di “riparazione”. Il problema è che siamo malati di certezza. Tutti sono così fottutamente sicuri. Quello che dovremmo fare è svuotare questi contenitori di certezze e iniziare a capirci l’un l’altro in modi nuovi e più profondi».
Dica la verità: si è sentito sollevato dai risultati delle elezioni di Midterm?
«Molto. Penso che sia stato un enorme calcio nel sedere a Trump. E mi ha ridato fiducia vedere che molti giovani abbiano deciso di votare e di dire la loro».
Un’ultima domanda: quando suo padre, giornalista, è andato in pensione ha iniziato a scrivere libri sulle rose. Quando toccherà a lei, che cosa farà?
«Io non andrò mai in pensione. Non riesco a vedermici. Coltivare rose, però, mi piacerebbe: era bellissimo guardare mio padre in giardino mentre ci parlava. Per me, però, le rose sono le storie e io voglio continuare a raccontare storie fino alla fine. Certo, se proprio dovessi… credo non mi dispiacerebbe andare in qualche città italiana e imparare tutto sul vino». —