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 2022  novembre 26 Sabato calendario

In morte di Hans Magnus Enzensberger

Vanna Vannuccini per la Repubblica
Hans Mag nus Enzensberger, morto ieri a Monaco all’età di 93 anni, una delle voci più importanti della letteratura tedesca del secolo scorso e certamente la più moderna (per non dire postmoderna ma lui questo aggettivo l’avrebbe rifiutato), è sempre stato uno che andava controcorrente. Un Querdenker , come dicono i tedeschi con una parola che fino a qualche anno fa non significava nulla di buono.Quer, infatti, significa “storto”, ed è riferito ai naviganti che non seguono la rotta prescritta e vanno di traverso, disturbando gli altri. In Germania, pensare con la propria testa ha destato sospetto più e più a lungo che altrove. Come disse lo scrittore ricevendo nel 2002 il premio Boerne: «Abbiamo bisogno di uno sguardo dai bordi. Quarant’anni fa, chiunque disturbasse il consenso veniva trattato come una mosca da scacciare. Fortunatamente tutto questo è finito». E aggiunse con una punta di ironia: «Oggi il pluralismo consente qualsiasi contraddizione. Un outsider viene non solo perdonato, ma fatto oggetto di grande stima e non c’è talk-show televisivo senza che vi partecipi».
L’improvvisa passione dei tedeschi per l’originalità, e perfino per l’eccentricità prima sempre biasimata, era in fondo quasi imbarazzante per lui, che era sempre stato un originale. Erano gli anni, tra gli Ottanta e i Novanta, in cui in Germania fu creata addirittura una Querdenker Akademie, un’accademia che insegnava a pensare di traverso. Finanziata dal mondo economico al fine di sbloccare quei comportamenti inerziali che diminuivano la competitività dell’industria tedesca.
Poeta, saggista, grande viaggiatore e autore di reportage, agent provocateur , appassionato di matematica pura (il suo libro per ragazzi Il gioco dei numeri ha avuto un enorme successo tra gli adulti, anche in Italia), Enzensberger ha sempre spiazzato chi lo voleva incasellare. La sua predilezione per le vie traverse era nata negli anni dell’anomia, alla fine della guerra, quando si era trovato sedicenne a vivere in una Norimberga dove gli anziani non avevano più credito, gli adulti erano o morti o prigionieri e perfino i ragazzi poco più grandi di lui si nascondevano, per paura di venir accusati di nazismo dalle truppe alleate. Il suo talento imprenditoriale, diceva, si era formato lì. Aveva cominciato con un po’ di mercato nero (vendeva svastiche e altre memorabilia naziste ai GIs in cambio di stecche di sigarette), faceva da interprete con quel tanto di inglese che aveva studiato, e arrotondava quel lavoro con un’attività notturna come pianista, in un piano bar dei militari americani. Anche l’attività lavorativa vera e propria rimase poi sempre frenetica: giovanissimo redattore alla radio bavarese (nella redazione saggistica diretta da Alfred Andersch, uno scrittore famoso anche perché aveva disertato la Wehrmacht a Roma passando al fronte alleato); borsista a Roma; lettore alla casa editrice Suhrkamp, e poi poeta stipendiato in Norvegia, docente universitario negli Usa, rivoluzionario a Cuba, fondatore della più importante rivista tedesca del dopoguerra, Kursbuch . Infine editore. «Pubblico solo i libri che mi piace leggere e per quelli che mi piacerebbe leggere ma non esistono cerco un autore», diceva. Altri tempi.
Marxista e leader del movimento studentesco, coglieva sempre i compagni di sorpresa: con le sue critiche all’Unione Sovietica (dov’era stato nel 1963 in un viaggio che portò a Mosca intellettuali di diversi paesi); o con la perorazione (in un saggio scritto in pieno ’68) per la letteratura contro la politica. La letteratura, scrisse, doveva esistere solo in quanto opera d’arte e non trovare giustificazione nei fini politici e sociali. Agli occhi di molti divenne un rinnegato perché rifiutava quella esaltazione utopistica che spingeva tanti a credere che la rivoluzione mondiale fosse dietro l’angolo. In realtà oggi lo si può vedere come un anticipatore delle posizioni anti-ideologiche dell’intellettuale moderno. Poteva andare a Cuba, attirato dalle promesse della rivoluzione, e scrivere al ritorno un saggio sul fallimento dell’utopia socialista.
Ma la spavalderia delle sue critiche irritò molti suoi contemporanei, a cominciare dal più famoso di tutti, Habermas. Enzensberger veniva accusato di seguire alla lettera ilbon mot di Paul Valéry: «non sono sempre della mia opinione». Al tempo stesso, però, era invidiato perché riusciva amantenere l’aureola di scrittore di sinistra, impegnato, osservatore partecipe della vita politica e sociale, pur tenendosi sempre a distanza. In ogni caso le critiche non gli tolsero il gusto della provocazione. Non per nulla l’immagine di sé che gli piaceva di più era quella del Fliegender Robert, il Roberto volante di una vecchia filastrocca tedesca, sempre pronto ad uscire quando la tempesta incombe e gli altri si chiudono in casa. Una sua poesia sul Roberto volante comincia così: «Escapismo/ mi gridate/ pieni di rimprovero./ Che altro, rispondo/ con questo tempo da cani!/Apro l’ombrello/ e mi levo in aria».
Il suo modello era Denis Diderot, su cui scrisse anche un libro,L’ombra di Diderot. La sua passione per il filosofo francese era nata, diceva, per la straordinaria mobilità del suo spirito e perché era stato il primo a organizzare gli intellettuali del suo tempo nella produzione, con il grande progetto dell’Enciclopedia. Come Enzensberger fece con Kursbuch e con la grande antologia di poesia di una ventina di paesi, ancora oggi un classico della poesia del Novecento. Diderot era «uno spirito refrattario ai sistemi compatti, interessato alla realtà com’è e come cambia», diceva. Uno per il quale «la tolleranza era la capacità dialettica di saper capire una cosa e il suo contrario, senza che questo diventasse indifferenza o pensiero debole. Intransigente solo su alcune questioni di fondo: non aveva mai fatto compromessi con la censura e non tollerava i fondamentalismi, a qualsiasi credo appartenessero. La giustificazione morale gli veniva dall’essere sempre pronto a rivedere le proprie posizioni».
Chi scrive resta, si diceva una volta quando Internet non aveva ancora cercato di realizzare questo slogan per l’intera umanità. Enzensberger era un grande esperto di comunicazioni di massa. Un suo libro degli anni Settanta, Pezzi per una teoria dei media,
si può leggere oggi come una profezia della trasformazione del cittadino da consumatore a soggetto dei media. In anni in cui il computer non era stato ancora inventato, Enzensberger aveva intuito il potenziale interattivo dei media. «La tecnica elettronica non conosce più contraddizione tra emittente e ricevente. Qualsiasi radio a transistor è anche potenzialmente un trasmettitore» scrisse su Kursbuch.
Internet ha in effetti trasformato il suo progetto utopistico in realtà, purtroppo però non sembra (almeno finora) che la generazione digitale condivida le sue visioni emancipatorie.
Le molte esplorazioni nei diversi campi letterari (ha scritto perfino libretti d’opera) non si sono mai estese a quello autobiografico. Seppur presentandosi in apparenza come un libro aperto lo scrittore ha sempre evitato la pur minima informazione sulla sua vita privata. Solo negli ultimi anni della vita ha scritto un libro autobiografico, Tumulto (tradotto in Italia come gli altri da Einaudi), in cui racconta delle lotte studentesche degli anni Sessanta, dei suoi viaggi in Russia (ha nuotato con Krusciov) e del suo amour fou per una bella russa, Masha, che sposò lasciando la moglie norvegese e con cui visse per una decina d’anni. Per avvicinarsi alla persona oltre che allo scrittore conviene perciò leggere le poesie — come la raccolta Mausoleum — più ancora dei saggi. Ma in tutte le opere troviamo la sua tipica mescolanza di pensieri di traverso e di contro pensieri, e la continua ricerca di nuovi temi, nuove tesi, nuovi formati. Sempre fedele al principio: osare, sperimentare, fallire, riprovare. In altre parole, restare giovani.



Paolo Di Paolo per La Stampa
Bisogna – per capire Hans Magnus Enzensberger – avere in mente una forma diversa di ironia. Un’ironia capace di funzionare come una sofisticazione dell’intelligenza (sui social del secolo in corso, per dire, non la trovi): un’eredità intangibile e piena di luce – una specie di scintillio perenne, mai fatuo – che sembra arrivare da lontano: da antenati, più che trisavoli, che dovevano avere, letteralmente, preso la scossa per via di una corrente elettrica detta illuminista.
Nell’incessante movimento, nel "tumulto" della sua lunga esperienza letteraria, Enzensberger – poeta e polemista, come l’hanno definito i giornali della sua Germania (giocando con l’impegnativo cognome, la Süddeutsche l’ha evocato come «Enzyklopädist», enciclopedista) – ha saputo fare dell’ironia una torcia accesa all’improvviso nel buio, un acido che brucia le convenzioni e i cliché, un modo antisentimentale e antiretorico di dimostrare amore per gli altri e per le cose. Le cose, s’intende, sempre colte nel vento del dileguare: nella «furia della caducità», come dice il titolo di una sua bellissima raccolta poetica del 1980. Le «lacrime di riconoscenza» per ciò che si è vissuto e si è perso brillano per un istante sulla guancia, ma il pianto non sarà liberato: diventa subito un sorriso, eventualmente un ghigno, come si conviene a chi ha saputo impostare una poesia-racconto satirica, corrosiva sui mali della Germania, del mondo, sulle diseguaglianze economiche ed emotive, sulle pretese del capitalismo e della immarcescibile borghesia.
Quando Enzensberger chiama in causa le furie della tragedia classica, le assimila a spiritelli vendicativi («badano anzitutto a che nessuno oltrepassi i propri limiti»): ed è un’immagine congeniale a un’idea di letteratura spiritosa e spiritata, che gioca con tutti i generi e tutti i registri (i versi, la narrativa, il saggio, il teatro, il pamphlet, il pastiche, il memoir anticonvenzionale, il pezzo per quotidiano o rivista), che fa dell’eclettismo la sua dimensione, che chiede alle parole di essere sovversive anche quando gli umani non trovano il coraggio per esserlo. Avanguardista permanente anche dopo l’esperienza fondante del Gruppo 47, sguardo cosmopolita, anima ribelle al conformismo: il cantiere-Enzensberger ha prodotto senza soste, per oltre sei decenni, idee e contro-idee, fornito chiavi di lettura, visioni aspre e non consolatorie del consesso umano, e di area occidental-tedesca in particolare.
Intellettuale nel senso pieno (novecentesco) che aveva questa parola (in una scena di Caro diario Nanni Moretti fa dire a un personaggio che non guarda la televisione «Sono d’accordo con Enzensberger»). Iperlettore e curatore di collane, allenatore di altri scrittori (Sebald, Ransmayr), bestsellerista involontario (il trionfo del Mago dei numeri, nel 1997: per convincere gli adulti, fingendo di dirlo all’orecchio dei bambini, che la matematica non va temuta), appassionato narratore di rivoluzionari e anarchici buoni (La breve estate dell’anarchia), cantore elegiaco di un coniglietto aristocratico in cerca di moglie («sa il cielo perché, ma i conigli di Berlino vivono tutti dietro un grande muro. Però non temere!», Esterhazy. Storia di un coniglio).
Enzensberger non guarda indietro, non si mette al centro di nessuna storia; e anche quando l’età e la fama lo costringono al bilancio ribadisce di avere scarso interesse per l’autobiografia in senso stretto: rappresentare sé stessi, dice, è un processo fatto di menzogne e di dimenticanze. Quando ripesca i suoi diari degli anni Sessanta (Tumulto) lo fa non per compiacersi delle battaglie intellettuali e politiche combattute, ma per ricordare al mondo «quanto rumore faceva il tumulto». Pericolo nostalgia? Tutt’altro! Spalanca gli occhi sul presente e conclude che, «semplicemente», il tumulto ha luogo altrove, «a Mogadiscio, Damasco, Lagos o Kiev, ovunque abbiamo la fortuna di non vivere. È solo una questione di prospettiva».
Vecchio mio, dice a sé stesso Enzensberger, il tumulto non finisce mai.