La Stampa, 26 novembre 2022
Somalia, la grande fame. Reportage
Quando è arrivata a Baidoa, sei mesi fa, Oray Adan era incinta, sfinita e denutrita al punto da non avere più nemmeno la forza di mangiare. Suo marito è un agricoltore del villaggio di Bakal Yere, o meglio lo era, prima che la siccità seccasse la terra, condannasse a morte il bestiame e portasse la famiglia alla fame.
Nei mesi che hanno preceduto la sua fuga dalla campagna tre dei loro quattro figli sono morti di stenti, malattie altrove curabili con un antibiotico e che in Somalia uccidono un bambino in una settimana, come il morbillo.
Per salvare il figlio superstite di due anni e quello che portava in grembo Oray Adan ha camminato due settimane e ha raggiunto il primo centro urbano in cerca di cure, acqua e cibo. È arrivata a Baidoa, città nella zona centro meridionale della Somalia, ed è stata indirizzata in un centro medico per bambini malnutriti. Scheletrica lei, scheletrico il figlio che teneva per mano, deperito il neonato che stringe tra le braccia con la cura che si deve a qualcosa di fragile che rischia di spirare da un momento all’altro. Si chiama Shukri Mohamed, ha quattro mesi, dovrebbe pesare otto chili, ne pesa solo due.
Oray Adan è avvolta in una veste che la copre dal volto fino ai piedi, del corpo ossuto si intuiscono la punta delle ginocchia, la secchezza delle braccia, il viso macilento è scavato dalla tubercolosi, dalla fame e dalla pena. Ho perso tutto - dice solo questo - ho perso tutto. La siccità le ha tolto le bestie, i campi, l’unico sostentamento che aveva. La siccità le ha tolto il cibo e la salute, le ha tolto i figli, ha reso fragili quelli rimasti in vita. Ho perso tutto, ripete. Poi stringe a sé il bambino tra l’avambraccio e il petto, lo dondola del cullare delle madri - il gesto universale di chi spera che il calore del corpo plachi il pianto e spenga la fame - poi lo stende sul letto del Centro di Stabilizzazione della città.
È qui che arrivano i bambini in uno stadio di severa malnutrizione. Lo scorso anno in un mese, a ottobre, i ricoverati erano stati 122. Dodici mesi dopo, a ottobre del 2022, sono stati 809.
Indicatore, uno dei tanti, dell’emergenza umanitaria che sta attraversando il Paese e che le agenzie umanitarie avvertono potrebbe diventare una crisi senza precedenti sia per dimensioni che per letalità se non verranno messe in campo, subito, le risorse necessarie.
I numeri sono spaventosi: secondo i dati delle Nazioni Unite 7 milioni di persone sono colpite dalla siccità e devono affrontare una grave carenza di cibo, un milione e mezzo di bambini a rischio di malnutrizione acuta, e un milione e duecentomila persone che in pochi mesi hanno lasciato tutto per cercare cibo e acqua nei centri urbani.
In Somalia sono fallite quattro stagioni delle piogge, sta fallendo la quinta, significa quasi tre anni con la terra che diventa arida, si secca, affama animali e persone.
Ma da sola la siccità non basta a provocare questi numeri, il Paese è vittima una volta ancora degli effetti combinati del cambiamento climatico, della crisi alimentare globale e della guerra che attraversa il Paese da trent’anni, la presenza del gruppo qaedista Al Shabaab che controlla vaste zone rurali, assedia villaggi e città, minaccia la popolazione civile e gli operatori umanitari.
Una tempesta perfetta che sta portando la Somalia sull’orlo di una nuova carestia. I ripetuti allarmi delle Nazioni Unite hanno ottenuto poco. L’anno scorso a dicembre, quando l’invasione russa in Ucraina non era ancora cominciata ma il Corno d’Africa già contava le conseguenze della quarta stagione delle piogge senz’acqua, gli indicatori c’erano tutti, bisognava intervenire e subito, con fondi ingenti e le Nazioni Unite lo ripetevano ogni mese: «Le dichiarazioni di carestia non dovrebbero essere l’unico fattore scatenante per un’azione significativa. I livelli di fame sono catastrofici da più di un anno», scrivevano. Ma gli allarmi sono stati ampiamente ignorati e, nonostante le promesse di impegno internazionali dei soldi richiesti è arrivato meno della metà.
Dagli ultimi allarmi è passato un anno, nel mezzo c’è stata la guerra in Ucraina che ha spostato altrove non solo la già poca attenzione destinata a queste zone del mondo ma anche i soldi della compassione. Ora è novembre, fine della stagione delle piogge e quella che sta fallendo è la quinta consecutiva. Significa che da tre anni non c’è abbastanza acqua per rendere coltivabile la terra, significa che muoiono gli animali, che i pastori e gli agricoltori abbandonano i villaggi e le campagne coi volti scavati dalla fame e dagli stenti in un esodo che li sta portando a centinaia di migliaia verso le città, come Baidoa.
Negli ultimi trent’anni la città è stata testimone della lenta discesa della Somalia nel caos, un tempo considerata il granaio del Paese, negli anni della guerra civile si è guadagnata il titolo di «città della morte». Durante la carestia del 1992 un terzo degli abitanti è morto di fame e di stenti e nel mese più terribile dell’assedio i camion attraversavano le vie della città recuperando i cadaveri e nell’unico orfanotrofio della città morivano di fame dai dieci ai quindici bambini al giorno.
Sulla carta oggi è ancora controllata dal governo, ma è circondata da militanti islamisti di Al Shabaab e può essere rifornita solo per via aerea, per questo portare aiuti qui è sempre più difficile, si entra solo con voli interni - o i pochi commerciali, o con i voli delle Nazioni Unite da Mogadiscio -, il coprifuoco per gli stranieri scatta alle tre del pomeriggio e per muoversi sono necessarie auto blindate e una consistente scorta armata.
I fantasmi delle passate carestie
Chi arriva qui camminando per giorni, portando con sé bambini sfiniti, diventa il fantasma del passato venuto a dire: agite finché siete in tempo, agite prima di contare i morti a centinaia di migliaia. La Somalia ha vissuto già due carestie in passato, nel 1992 e nel 2011, che hanno provocato almeno mezzo milione di morti.
«I numeri e il grado di malnutrizione che vediamo oggi nei bambini è esattamente quello del 2011»: a parlare, con parole nette, è Mohamed Osman Wehliye, il medico responsabile del Centro di Stabilizzazione gestito da Save the Children a Baidoa.
Ha poco più di trent’anni, è nato e cresciuto qui. I morti del 1992 e del 2011 li ricorda perché c’era e oggi, di fronte ai cartelloni con le statistiche annuali, con i numeri dei ricoveri che si moltiplicano, con la città assediata e gli aiuti che faticano ad arrivare dice solo: non pensavo che sarebbe successo ancora.
Da mesi assiste all’arrivo di madri come Oray Adan. Bussano alla porta, gli dicono che non sfamano i figli da tre, quattro, cinque giorni. Lui ogni volta fa quello che deve e quello che può - ossigeno, antibiotici, cibo terapeutico - e ogni sera torna a casa chiedendosi chi peggiorerà il giorno successivo, se le medicine basteranno per tutti, chi sarà la prossima madre a bussare alla porta del centro e se lui sarà in grado di salvare i suoi figli.
A volte, quando ha in carico casi molto gravi non torna a casa, resta lì a guardare i bambini, «i miei bambini» li chiama, sperando di avere abbastanza mezzi per non segnare +1 sulla statistica dei morti.
Il dottor Wehliye dice che la carestia è già qui e che si sta perdendo troppo tempo, come l’ultima volta, nel 2011, quando metà delle oltre 250.000 vittime è morta prima che la carestia venisse ufficialmente dichiarata. Centoventicinquemila erano bambini.
Per dichiarare lo stato di carestia esistono dei parametri: è necessario che un terzo dei bambini di una regione sia gravemente malnutrito, un quinto della popolazione non abbia accesso al cibo e che si verifichino due decessi per fame ogni 10 mila persone ogni giorno. Parametri nel catalogo della crisi.
Cammina lungo i muri dove sono appesi cifre e percentuali. Dice che tutto si è moltiplicato ma che chi arriva qui, emaciato, consumato dalla fame, è comunque nel bacino dei fortunati. Si possono contare, dunque sono vivi. Meglio che invisibili. Lo dice perché oggi mancano i dati di chi non riesce a lasciare controllate da al Shabaab, e lì non solo non entrano gli aiuti umanitari, ma non escono i numeri, reali, dei morti.
Sono morti che sfuggono ai radar perché anche qui, come in Ucraina, come in Siria, la fame è un’arma di guerra. Chi sta morendo oggi è invisibile e domani diventerà un numero delle statistiche fuori tempo massimo, quando i parametri per ottenere il marchio della carestia, della piaga per fame, saranno già stati superati dagli eventi.
Per questo il dottor Wehliye dice che la carestia la conosce chi la vive e non chi la osserva da lontano.
Entra nelle stanze, visita i bambini, li pesa, sente il battito e il respiro. E ricorda che qui, in Somalia, si muore di morbillo perché nelle aree remote non arrivano i vaccini, e quando i bambini arrivano con gli occhi rossi e la pelle segnata è tardi, e muoiono di una malattia infettiva che in Europa è debellata, in pochi giorni.
«Le loro vite valgono meno delle altre», lo scandisce sillaba dopo sillaba, nel corridoio del Centro di Stabilizzazione di Save the Children, «la differenza è nel colore, voi siete occidentali, questi bambini sono africani. Si chiama discriminazione».
È il colore della pelle che determina la compassione, dice il dottor Wehliye.
Gli occhi delle donne sono asciutti, secchi anche loro come la terra e come i campi, asciutti come i corsi d’acqua, secchi perché malati, perché il corpo è disidratato, perché sono finite le lacrime dopo aver perso un figlio per fame, un altro di morbillo. Il resto del mondo resta voltato altrove, perché sa che guardare in faccia questi volti rinsecchiti inchioderebbe alla responsabilità collettiva, alla presa in carico di una comune, condivisa, urgente, umanità.
Stesi sui materassi i bambini somali dalla pelle aggrinzita piangono lacrime che sono identiche a ogni angolo del pianeta, sono le lacrime di chi ha fame.
Il mondo intanto aspetta che i numeri dei morti soddisfino i criteri, le soglie tecniche, per definire la carestia e a quel punto, solo a quel punto, agiranno. A quel punto anche queste vite saranno diventate fantasmi.