Robinson, 26 novembre 2022
Su Dossi
«Un pensiero non basta trovarlo, bisogna meditarlo». Questo monito bisognerebbe rivolgerlo a tutti noi, che oggi ci nutriamo, sempre più criticamente, di idee ricevute e pensieri premasticati. Appartiene alla penna di Carlo Dossi (1849-1910), scrittore lombardo geniale e irritante che costeggiò la scapigliatura e come diplomatico finì a Bogotà, dopo essere stato il segretario personale di Crispi. Dossi era un ingegno eccentrico e un carattere ombroso: raffinato bibliofilo e collezionista, travolgente umorista, fine osservatore di costume, semiologo ante litteram. Amava i mattoidi e i sognatori. Soprattutto: scrittore espressionista, esponente di una ideale linea lombarda che arriva a Gadda. Della sua multiforme produzione ricordiamo l’opera principale, Note azzurre, un diario pubblicato postumo che si estende per 40 anni – fino al 1908 —, zibaldone di cronache di costume, aneddoti, giudizi letterari, aforismi, meditazioni morali, micronarrazioni. Ha scritto vari altri libri, tutti al confine tra generi letterari – tra romanzo, bozzetto, autobiografia, ritrattistica – e un’opera teatrale in dialetto milanese, ma le Note azzurre, monologo fitto di voci, esprimono la quintessenza della nostra letteratura, refrattaria al romanzo e invece incline al frammento, alla prosa morale e al saggio autobiografico:«molte grandi, molte belle cose disegnai, molte abbozzai, nessuna ho compiuto». In fondo anche Pasolini, con la sua produzione tutta un po’ provvisoria, potrebbe apparirci come uno scapigliato. In Dossi, sia che scriva favole o allegorie o miniature ( oltre alle Note azzurre segnalo solo le umorali, deliziose Goccie d’inchiostro), prevale sempre il pastiche linguistico, il capriccio di mescolare alto e basso, il gusto di contaminare dialetto, lingua ricercata, gerghi, perdipiù entro una sintassi disarticolata (la già ricordata linea lombarda). Quando entra in politica va a vivere a Roma, affascinato e disturbato da una certa sbracatezza mista a saggia tolleranza. Annota spesso sul diario espressioni dialettali. Questa anticipa il “generone” romano: «Di grossi lavori ch’appaltano che promettono pingui lucri, gli imprenditori romaneschi dicono: è lavoro che se magna co le forchette d’argento». Il pastiche non gli impedisce di ammirare la prosa media di Manzoni, di cui esalta il coté umoristico e la capacità di infondergli un senso di pace («ne leggi un periodo, la calma ritorna al tuo spirito») proprio come accadeva al nipotino Gadda, mentre della poesia di Carducci, assai poco amato, dirà che è «monumentale». La sua passione principale è l’umorismo, definito «la letteratura di chi pensa». Dunque rassegnatevi: se siete del tutto privi di sensodell’humour, per Dossi solo fingete di pensare! Come critico letterario è un lettore acuto e idiosincratico, dotato di un lessico fiorito, di precisione metaforica: «stile floscio, aquoso[ sic], stile podagroso, stile stracco, stile olioso, stile diluito…». I suoi amori letterari sono lo scrittore ironico Jean Paul e Montaigne (ci presenta la filosofia «in veste da camera», mentre l’umorismo in Manzoni è «in giacchetta»), gli umoristi e i moralisti, i libertini e i satirici (a partire da Giovenale e Petronio), oltre agli spagnoli da Cervantes a Quevedo, o agli inglesi da Swift a Sterne… Proviamo a ripassare alcune delle quasi seimila annotazioni delleNote azzurre ( così chiamate per il colore della copertina dei quaderni, non per una improbabile inclinazione ottimistica). Perché a volte Dossi è irritante? Perché è un conservatore con punte francamente reazionarie. Del socialismo pensa che «le uguaglianze sono soprattutto basate non sull’ottimo, ma sul pessimo». Altre volte concede anche qualcosa alla volgarità del buon senso che pure avversa, come quando riporta, in modo neutro, il commento dell’amico Rovani su Leopardi: «è bello ma si sente il gobbo» ( non può resistere per nessuna ragione a una boutade che gli appare sferzante). A un certo punto ci imbattiamo in una idea di letteratura da contrapporre a tutte le poetiche realistiche: «In Zola c’è tutto quanto si vede, non quello che non si vede,che è il più», un assunto che sembra riecheggiare nella celebre dichiarazione di Paul Klee, un paio di decenni dopo: «L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è». Più in là Dossi precisa: «l’arte non imita, interpreta». Una costante delle Note è la idiosincrasia verso gli eruditi, gli intellettuali, le «castronerie della gente dotta». Sentite questo aforisma fulminante: «L’erudizione, spesso alimento all’ignoranza. Più si legge meno si sa» (da meditare quando si elaborano le campagne per la promozione della lettura: il punto è come si legge). Ma vero bersaglio è il ceto emergente alfabetizzato, quasi la middle class culturale che si afferma molto dopo, ansioso di aggiornamento e con le velleità dei parvenu: «Vi ha gente che è sempre del parere dell’ultimo libro». Si è detto del disprezzo aristocratico per le idee egualitarie, tuttavia bisogna aggiungere che uno spirito così iconoclasta trova il modo di stigmatizzare anche certo angusto nazionalismo della classe dirigente di allora ( ma di ogni tempo): «Il patriottismo è un modo malsano di campanilismo, un po’ più largo se si vuole ma sempre in opposizione agli interessi dell’umanità, presa nel suo complesso». Un aforisma che propongo di riprodurre all’ingresso di alcuni ministeri attuali.