La Stampa, 25 novembre 2022
L’odissea dei figli di due madri
In Francia, dove sono nati e vivono, Alberto e Martina sono fratello e sorella a tutti gli effetti: stesso cognome, entrambi figli di due madri – una biologica l’altra adottiva – stessi diritti. In Italia no. Cognomi diversi, diritti diversi, madri diverse. Fratelli di un dio minore.
Prima che di burocrazia ottusa se non oscurantista, questa è la storia di una famiglia. A costituirla due donne italiane, Sabina e Stella, che vivono in Francia per motivi di lavoro. Si conoscono e innamorano nel 2008. Si sposano e nel 2014 con la fecondazione assistita nasce Martina. Figlia biologica di Sabina e adottiva di Stella. La sentenza del tribunale francese arriva in dieci mesi, riconoscendo che la madre adottiva «ha partecipato al percorso gestazionale e contribuisce al pari di un genitore al mantenimento, alla cura e all’educazione della minore». Anche per le coppie omosessuali, l’adozione crea un rapporto genitoriale pienamente parificato a quello biologico.
Sabina e Stella vogliono che la loro primogenita, italiana come loro, abbia lo stesso status anche nel suo Paese. Si rivolgono perciò al Comune di Roma, per ottenere il riconoscimento di quanto già consolidato in Francia. Nel 2016 il Comune boccia l’istanza, in quanto «contraria all’ordine pubblico e ai principi fondamentali che in Italia regolano il diritto di famiglia e dei minori, in quanto l’adozione è consentita solo a coniugi uniti in matrimonio, e pertanto a coppie formate da persone di sesso diverso».
Le due madri non ci stanno. Nel 2017 fanno ricorso alla Corte di appello, valorizzando «il preminente interesse del minore a vivere in modo stabile in un ambiente domestico armonioso» su un’astratta, estensiva e retriva nozione di «ordine pubblico», che sulla base di meri «pregiudizi» mette in correlazione «l’orientamento sessuale con l’idoneità ad assumere la responsabilità genitoriale».
La Corte di appello di Roma è uno degli uffici giudiziari più sommersi di fascicoli e perciò lenti. Passano quattro anni perché si pronunci sul caso di questa famiglia. Nel 2021 la pronuncia è totalmente favorevole alle due madri, «di cui non sono affatto in discussione le capacità genitoriali». Scrive la Corte che negare alla bambina il diritto ad avere due madri viola «il suo superiore interesse a crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psicofisico, l’autodeterminazione e le scelte relazionali dei genitori, il principio di non discriminazione, la conservazione della continuità affettiva stabilizzatasi nella famiglia», rafforzata dalla validità del matrimonio francese in Italia come unione civile. Al Comune viene imposto di attribuire alla bambina il doppio cognome delle due madri.
La Francia aveva risolto la questione in dieci mesi, l’Italia in quattro anni. Nel frattempo, nel 2019, la famiglia si è ingrandita. È nato Alberto. Questa volta partorito da Stella e adottato da Sabina.
Forti della prima sentenza, nonché di ulteriori pronunce di Cassazione e Corte Costituzionale, nel giugno 2022 le due madri tornano al Comune di Roma per chiedere anche per il piccolo Alberto il riconoscimento della doppia genitorialità. Ricordando il precedente della primogenita, l’avvocato Alexander Schuster scrive che si tratta di fare un copia-e-incolla «da una fattispecie identica e il rigetto comporterebbe il risarcimento del danno causato, ma sarebbe altresì un atto penalmente rilevante, come rifiuto di atto dovuto».
Un mese dopo il Comune risponde no. Si appella alle «istruzioni» del ministero dell’Interno che «per coppie dello stesso sesso consente il riconoscimento dello stato di filiazione nei confronti del solo genitore con cui sussista l’imprescindibile legame biologico o genetico con il minore». E trascrive l’atto di nascita di Alberto solo come figlio di Stella, e non della madre adottiva Sabina.
Per l’Italia Martina è figlia di due madri; Alberto solo di una. Alle due madri non resta che un nuovo ricorso alla Corte di appello. Altri tre o quattro anni di causa e diverse migliaia di euro da spendere. Infatti in genere i giudici non condannano Viminale e Comune a pagare tutte le spese giudiziarie, nemmeno se escono soccombenti perché «in malafede mantengono una prassi contraria a diritto», come denuncia l’avvocato Schuster.
«Oggi gestire un processo così lungo e costoso richiede ai genitori una rilevante disponibilità economica – dicono le due madri -. Ciò crea una disuguaglianza all’interno delle stesse famiglie arcobaleno, tra chi si può permettersi di investire in una causa e chi no». —