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 2022  novembre 25 Venerdì calendario

Intervista a Gianciacomo Schiavi


La tecnologia non sostituisce la credibilità. E men che meno l’andare sul marciapiede a parlare, chiedere e domandare per ottenere un’informazione in più, che non è la penna ridotta a pugnale, ma la narrazione di una verità nascosta e fatta emergere con un duro e preciso lavoro: Giangiacomo Schiavi, giornalista in forza al Corriere della Sera di Ugo Stille e Paolo Mieli, scrittore nonché vicedirettore del foglio milanese, Ambrogino d’oro nel 2007, è in libreria con il suo Scoop – Quando i giornalisti fanno notizia (Antiga edizioni). A ItaliaOggi racconta questa passione che è anche professione. Con uno sguardo al futuro. Perché il giornalismo un futuro ce l’ha, quantomeno fino al 2072.

Domanda. Giangiacomo, che cos’è uno scoop? L’idea corrente è che si tratti dello sputtanamento altrui mediante la rivelazione di notizie scandalose, piccanti o sconosciute.
Risposta. Quello sarebbe gossip. Diciamo che lo scoop è una verità che qualcuno tende a nascondere, per cui lo scoop è un lavoro investigativo fatto di curiosità, impegno, intelligenza, dedizione, passione che svela tutto questo. Gli esempi sono nel mio libro: penso a Ustica, dove Andrea Purgatori scopre che nel cielo di Ustica c’è stata una battaglia aerea. Poi ci sono versioni particolari: Indro Montanelli diceva che lo scoop è la scorciatoia dei somari alludendo alla capacità con cui si possono attingere delle notizie attraverso le pattumiere o i cestini della carta straccia, frugando in qualcosa di torbido.
D. Che è quello da cui metteva in guardia Walter Tobagi.

R. Appunto. L’idea dello scoop è quella che spinge il cronista a denunciare le derive del potere, ma può anche accendere una luce su alcuni angoli bui che il lettore scopre attraverso il lavoro dei bravi giornalisti.
D. Tu racconti come nel 1982 Nino Gorio del Giorno ritrovò a Parigi l’Annunciazione di Jacopo del Casentino, quadro rubato nel ’75 in casa Pirelli. Gorio venne mandato in Francia con un fotografo per una storia che oggi non sarebbe considerata uno scoop. Che cosa è cambiato?
R. Ci siamo un po’ adagiati nel comfort, che è quello che ti porta a restare seduto. Il nostro invece è un lavoro certosino e anche un po’ francescano: andare a bussare alle porte, chiedere finché non si ha risposta. Abbiamo rinunciato a chiedere perché il web, oggi, ci dà risposte che non vorrebbe il cittadino ma sono comode perché ci evitano di uscire in strada. Il fatto è che quando vai sul posto c’è sempre qualcosa da scoprire e raccontare. Oggi tutti si sentono giornalisti grazie allo smartphone, ma quello che manca è sapere che cosa devi comunicare. Che fare? Cercare di riprendere il filo dell’essenziale usando la tecnologia moderna e applicando le regole di sempre: andare, vedere, raccontare, muoversi soprattutto. Uscire!

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D. «Facce e storie», come dice Pierluigi Magnaschi.
R. Uscire. Uscire dalla comfort zone, che è comunque quella che alla fine ti toglie il contatto diretto: oggi puoi trovare le notizie anche sul labiale di Giorgia Meloni quando parla alla Camera, forse vale più della parola scritta. Ma se non c’è poi il cronista che indaga, resta ad un’immagine da Blob, da Striscia la notizia, non c’è poi qualcosa da esplorare. I camion militari di Bergamo all’inizio li ha visti un cittadino e li ha postati su Facebook. Però il giorno dopo la cronaca sul Corriere della Sera mette i brividi: perché i giornalisti l’hanno raccontata direttamente. Questo è il giornalismo che ti emoziona perché ti fa vedere le cose e alla fine quando lo trovi ben scritto ti riappassioni alla bellezza di questo mestiere.
D. Ma c’è chi ancora dice che quelle foto fossero false. Perché: «L’ha detto il giornale» non vale più? Igor Man distingueva tra chi ha fatto il Vietnam e chi no: oggi dobbiamo credere al cronista a Kiev sotto le bombe o al reporter nel Donbass che racconta la versione russa?

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R. Lo scopo di un buon giornalista è quello di essere utile: i giornali sono anche un incivilimento. Devono essere cre-di-bi-li, il giornalista dev’essere un raccontatore di fatti ma mettere anche qualcosa di suo: deve avere una logica, una morale. Tanti di noi si muovono in uno schema facilitato dal web ma il tweet non ci salverà dalla deriva. Dobbiamo andare a cercare le notizie, se non c’è questo non c’è giornalismo. E poi c’è quest’eccesso di giornalismo in cui notizie e fake news vengono quasi assimilate. Eh no: dobbiamo distinguere le notizie vere dalle false e buttar via il resto che è pattumiera, come diceva Tobagi.
D. Raccontare una storia richiede tempo: il futuro del giornalismo è nel quotidiano settimanalizzato alla Eugenio Scalfari? C’è un futuro per la carta?
R. Oggi ci sono più piattaforme sulle quali possiamo agire: è inevitabile che il giornalismo di carta abbia un suo declino ma non è la fine. Sulla carta arriva qualcosa di meditato che rende «magico» un fatto attraverso la bellezza e passione della scrittura. Il sistema «accelerato» di dare la notizia è inevitabile, è la modernità; quello che serve ancora è un ragionamento affidato alla carta ed alla cre-di-bi-li-tà della penna del giornalista. Dobbiamo essere orgogliosamente giornalisti e riaffermare la necessità del buon giornalismo. E poi c’è una narrazione nuova per me efficace e bellissima: utilizzare il tuo racconto con dei video, passaggio molto importante per la categoria. Non inventeranno mai l’algoritmo della credibilità.
D. Per finire: è il 2072, i giornalisti ci sono ancora o si sono estinti?
R. No, ci sono ancora: secondo me sono cambiati. Sono diventati francescani della notizia che hanno meno prosopopea e cercano di aprire delle finestre perché si tende ad un appiattimento generale. Ci sarà sempre qualcuno contro questo livellamento che mette quasi tutto sullo stesso piano e il giornalista creerà la diversità, fondamentale nella società. Se il giornalista sarà capace di non omologarsi, allora il giornalismo tornerà ad essere giornalismo utile. Che è quello del futuro.