il Giornale, 25 novembre 2022
Ritratto di Gian Arturo Ferrari
L’uomo che voleva essere Calasso si chiama Gian Arturo Ferrari, ma gli amici lo chiamano Gianni. Tutti gli altri «il Professore», e non si è mai capito se per prenderlo in giro o per deferenza.
Dopo il liceo al Collegio Ghislieri e la laurea in Lettere classiche all’Università di Pavia tentò la carriera accademica – scuola di Mario Vegetti, téchne, Galeno, i presocratici, l’«io collerico»... insegnando Storia del pensiero scientifico. Ma poi abbandonò tutto per l’amore dei libri. Voleva averne tanti, voleva averli tutti, voleva rubarli, deciderli, pubblicarli, venderli, vincere premi e farli fallire. Ci è riuscito, in ogni cosa.
Quando era potente lo chiamavano il Signore dei libri. Adesso che lo è un po’ meno, Gian Arturo. Il cursus honorum è sontuoso: braccio destro di Paolo Boringhieri già negli anni Settanta, editor della Saggistica Mondadori nel 1984, direttore dei Libri Rizzoli nel 1986, rientrato in Mondadori nel 1988 come direttore dei Libri e poi dal 1997 al 2009 come direttore generale, perfino una parentesi (non così felice in verità) come presidente del Centro per il libro e la lettura dal 2010 al 2014 e ancora un ritorno a Segrate, tra il 2015 il 2018, da superconsulente di Mondadori Libri. Anni di successi, di business, di marketing, di saloni e di salotti. Quando andava a Parigi in missione editoriale e scendeva all’Hotel Crillon, e non mancava di fartelo sapere. Quando alla Buchmesse rilanciava all’asta dei diritti come a un tavolo di poker, tanto i soldi non erano suoi. Quando ti incrociava a un festival o a un premio, e ti metteva la mano sulla spalla «Stai tranquillo, ci penso io», e poi non pensava a un cazzo, se non a quello che interessava a lui. Quando chiacchierava con Giorgio Bassani, quando imparava da Carlo Fruttero, quando citava l’amato Citati...
Comunque, Gian Arturo Ferrari la storia del libri e dell’editoria la conosce così bene che a suo tempo, nel 2014, scrisse un libro intitolato Libro (Bollati Boringhieri), e oggi ci dà una splendida Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio) che è due cose insieme. Per metà racconta l’avventura novecentesca degli Arnoldo Mondadori e gli Angelo Rizzoli (i dioscuri dell’editoria italiana, gemelli identici e diversissimi), i Valentino Bompiani, la dinastia manualistica degli Hoepli (il successo dei libri «utili»), e poi l’elogio di Livio Garzanti (carattere difficile ma perseveranza formidabile, si pensi a Gadda...), le pagine sullo Struzzo e il cielo stellato (cioè il corpo a corpo fra Giulio Einaudi e Boringhieri), le pagine invidiosette sull’Adelphi, quelle un po’ troppo «partecipate» su Giangiacomo Feltrinelli, quelle sugli editori «medi» più originali (Sellerio) e imprevedibili (e/o). E per metà raccoglie ricordi, aneddoti (la sua vita, le opere e i miracoli in Mondadori), riflessioni dell’autore (utili quelle sulla necessità di trovare un equilibrio fra i comandamenti di Dio, cioè le esigenze culturali, e la schiavitù di Mammona, cioè le leggi economiche), massime (frase tormentone: «L’editoria è uno strano mestiere perché usa lo spirito per fare i soldi e i soldi per fare lo spirito») e «dietro le quinte» (cioè le miserie dell’editoria reale), tra autobiografia e autocelebrazione. «Io ho fatto...», «Io intuii...». «Io scoprii...». La memoria del libro e le memorie del Signore dei libri.
Nascita da dimenticare a Gallarate, città di ciminiere, tessiture e provincialismo, infanzia nella terra d’origine, collina emiliana, di cui ha mantenuto il modo di esprimersi con i suoi autori («Abbiamo trovato il manzo, mettiamolo all’ingrasso»), una cultura vaga e salottiera mediamente superiore alla media di chi lavora nell’editoria, memoria eccellente, fantasia mediocre, una vanitas che non si è sopita negli anni a febbraio saranno 79, Auguri è come tutti gli intellettuali cinico, narciso e autoriferito (che poi è la sua simpatia). Gian Arturo Ferrari è una di quelle persone che quando ti incontrano passano la prima mezz’ora a parlarti di loro, e poi ti chiedono: «Ma adesso dimmi di te. Hai letto il mio libro?». Purtroppo sì.
Ritiratosi dalle fabbriche del libro, Gian Arturo Ferrari si è messo a scriverli. Uomo che ha sempre avuto un fiuto per quelli degli altri, tende ad avere meno senso critico per i propri. Quando nel 2020 pubblicò Ragazzo italiano, il suo primo romanzo – con Feltrinelli, in un momento di rivalsa con la Mondadori e di reciproco innamoramento intellettuale con Carlo Feltrinelli, chissà perché poi... decise persino di partecipare allo Strega. Di più. Credendo ancora ai premi (e forse è rimasto uno degli ultimi, oggi che per sapere chi ha vinto l’anno scorso lo Strega o il Campiello lo devi cercare su Google), si illuse di vincerlo. Lottando disperatamente. E così, lui che si è sempre gloriato di aver trasformato in una scienza il pacchetto di voti, telefonò personalmente a tutti i giurati suoi vecchi amici, ai quali quando era il kingmaker dell’editoria aveva fatto mille favori e ora ne chiedeva uno in cambio. «Pronto? Ciao, sono Gianni. Come stai? Hai visto il mio romanzo?». Arrivò penultimo della cinquina.
Cinquantamila libri posseduti (ma forse è un’esagerazione), quarant’anni da top player nel mondo di carta, tre grandi ossessioni (i libri, il potere e il potere di fare i libri), due mogli la prima una giornalista femminista, la seconda una agit prop di Beppe Sala – e da sempre un primo della classe. La sua vita come un Bildungsroman tra l’Emilia contadina, la Milano del boom e un’Italia da pubblicare.
Amato da tanti e mal sopportato da troppi, gessati da gangster, pacche sulle spalle, physique du rôle del boss (già in Rizzoli ti accoglieva calcolatrice in mano e piedi sulla scrivania), una vita a riscattare l’infanzia fragile e triste dalla romanzesca casa impiegatizia di famiglia a Galaràa al leggendario attico milanese firmato da Giuseppe Terragni in cima a Casa Rustici, su corso Sempione Gian Arturo Ferrari, tra l’alto e il basso, ha fatto il bello e il brutto dell’editoria italiana. Chi lo difende gli riconosce il merito di aver tenuto insieme le esigenze culturali e quelle commerciali, i classici e il mercato, l’intellettualità e l’industria; e non è poco. Chi lo critica gli addossa la responsabilità della «deriva mercantilistica» di Mondadori (che poi ha contagiato tutto il settore), di aver svenduto la cultura per il soldo e di aver inventato il libroide, quella cosa che uno è convinto sia un libro e invece non lo è. Autobiografie dei vip, ricettari, saghe faraoniche e varia amenità.
Manager di fronte agli intellettuali (agli scrittori sbatteva in faccia numeri e tecniche gestionali: «Questa è un’industria che deve vendere!») e intellettuale davanti ai manager (agli «editoriali» parlava sempre con linguaggio aulico e citazioni letterarie, forse per impressionarli), Gian Arturo Ferrari ha – indubbiamente – decine di virtù. Fiuto, furbizia, cultura, intelligenza, sorriso sornione, battuta pronta, joie de vivre e un certo snobismo. E qualche vezzo. Il più scusabile dei quali è la tendenza ad attribuirsi i meriti degli altri. Quando, nel 2003, l’insostituibile editor Stefano Magagnoli portò in Comitato di lettura Il codice da Vinci di Dan Brown, Gianni – sia detto confidenzialmente – sbottò: «Che cosa volete che venda in Italia un libro che parla male del Vaticano...». Naturalmente divenne un bestseller. Il suo.