Avvenire, 24 novembre 2022
Bianco, l’ultimo colore di Pastoureau
Ebbene sì, il bianco è un colore. A pieno titolo, esattamente come lo sono il rosso, il nero, il blu, il giallo o il verde, e di primo piano. Non poteva che partire da questa precisazione Bianco. Storia di un colore (Ponte alle Grazie, pagine 240, euro 32,00), il sesto e ultimo capitolo di una serie sulla storia sociale, culturale e simbolica dei colori in Europa, iniziata più di vent’anni fa da Michel Pastoureau, storico e antropologo, massimo esperto in materia. Incipit dovuto perché sul suo status c’è ancora qualche luogo comune e perché c’è stato un tempo, tra la fine del Medioevo e il XVII secolo, in cui il bianco aveva perduto la sua condizione di vero colore. Prima in virtù dell’invenzione della stampa a metà del Quattrocento con cui, come spiega Pastoureau, «si fa avanti progressivamente una specie di mondo in bianco e nero, collocato inizialmente ai margini dell’universo dei colori, poi al di fuori di questo, e infine al suo esatto opposto». E in secondo luogo con Newton e i suoi esperimenti con il prisma nel 1666, quando la scomposizione della luce bianca del sole in raggi colorati stabilisce un nuovo ordine cromatico in cui non c’è posto né per il bianco né per il nero. Una rivoluzione scientifica che ha fatto del bianco un non colore anche per il sapere comune, ribaltando un’attenzione, una sensibilità e un uso del bianco che invece hanno attraversato tutta l’antichità e il Medioevo, formando con il rosso e il nero una triade cromatica di primo piano. Del resto per secoli fino all’età moderna, in nessuna lingua d’Europa “bianco” e “incolore” sono stati sinonimi. Tuttavia c’è bianco e bianco, soprattutto rispetto alle sfumature che ne indicano la luminosità: un bianco opaco, in latino albus e uno brillante, smagliante, candidus. Il più difficile da ottenere almeno negli abiti, visto che quello degli abiti di lana e lino è un bianco più grigio che altro, écru, con riflessi giallognoli e verdastri. Nella Roma tardo repubblicana e imperiale le toghe di lana, che devono apparire il più bianco possibile, vengono decolorate e sbiancate con sali di tartaro e saponarie ma continuamente cosparse di abbondante gesso per nasconderne macchie e usura. Che Poppea, moglie di Nerone, facesse il bagno nel latte d’asina per ottenere una pelle candida segno di classe alta, è storia. Ed è noto anche che altre matrone usassero cospargersi a rischio della vita della tossica biacca di piombo. Forse, spiega Pastoureau, è proprio in questa fascinazione unita all’impossibilità di riprodurre ed eguagliare il bianco fulgido e il candore senza imperfezioni regalato dalla natura alla neve, al latte o al giglio reale che risiede quell’idea di purezza e bellezza che per secoli è stata connaturata al bianco. Nell’immaginario e nella simbologia a prevalere sono proprio gli aspetti positivi di un bianco che rimanda alla luce, all’origine del mondo e a valori forti e universali come appunto purezza, pulizia, innocenza, verginità, bellezza, giustizia e pace, rispetto a una simbologia più svalutante che racchiude l’idea di assenza e di vuoto, di cui resta traccia nel lessico a proposito di pagina bianca, notte, assegno o dieta in bianco. Nel Nuovo Testamento bianco è il colore più nominato, indica purezza, santità e dignità, quindi è il colore di Dio e di Gesù glorificato. Nell’iconografia è l’abito degli apostoli nell’arte paleocristiana, degli angeli e degli ecclesiastici nelle Festività solenni del Cristo e della Vergine. Bianchi l’agnello e la colomba, il cigno e l’unicorno che hanno posti di rilievo nei bestiari medioevali. Bianco il lino che cinge Gesù sulla croce e bianco il sudario: per secoli lo sono i tessuti a contatto con il corpo, dalle fasce infantili, ai teli che avvolgono i defunti, alla biancheria intima. E in seguito, dal XIV secolo in poi, i merletti, le camicie e gli abiti dell’aristocrazia principesca; il colore del lutto delle regine di Francia. E ancora tutto ciò che riguarda l’igiene, la salute e la cura del corpo, dalle toilette agli ospedali. Con una rivoluzione che dalla fine del ’700 porta in vita un bianco davvero bianco dei tessuti, degli indumenti intimi e di tutta la biancheria, grazie all’isolamento del cloro e della candeggina. Un’ossessione mai sopita quella del “bianco che più bianco non si può” che oggi convive con infinite trasgressioni della sua simbologia. Non ci si sposa più solo in bianco, il corredo dei bebè è variopinto come lo è l’intimo o la biancheria del letto. Sarà per questo che l’uomo contemporaneo ha così tanti disturbi del sonno?