Corriere della Sera, 24 novembre 2022
Biografia di Gerry Scotti raccontata da lui stesso
Gerry Scotti si definisce un ragazzo fortunato, la cui vita è stata ben più incredibile dei suoi sogni. Per merito – ma quasi sempre anche un po’ per caso – questo ex bambino timido della periferia di Milano ha vinto una serie di sfide che, però, ancora oggi fatica a definire tali. «Non avevo spirito di rivalsa e non ho mai desiderato diventare chi sono: non era il mio obiettivo. Semplicemente sono successe molte cose che sembravano perfino a me al di là della mia portata».
È in assoluto tra gli uomini più popolari d’Italia. Ma per errore?
«Facevo la radio e mi sembrava il massimo. Sentiamo Linus da 30 anni: se non avessi preso la mia strada, oggi sentireste lui e me, perché quello volevo fare, la radio».
Poi, però, è arrivata la televisione.
«Cecchetto si è preso la briga per primo di dirmi che quello che facevo in radio potevo farlo, allo stesso modo, in tv: aveva inventato la radio visione con Deejay television. Mi sembrava il massimo allargamento della mia professionalità: lo vivevo come una protesi, come un abusivismo che prima o poi avrei condonato. Non vedevo l’ora di tornare a fare solo e soltanto la radio».
Invece, dopo qualche anno, si è ritrovato a condurre anche il Festivalbar.
«Non posso dire che mi sia capitato per caso, ma quasi: sempre Cecchetto mi aveva proposto di fare le telepromozioni al posto suo, così ho passato l’estate del 1987 dietro le quinte del Festivalbar. La serata della finale, all’Arena di Verona, davanti a 30mila persone, esco per fare la mia pubblicità delle patatine. Salvetti, il patron della manifestazione, aveva una stanzina grande un metro per due, da dove supervisionava tutto. Sente il boato e urla: vi avevo detto di non far salire sul palco nessun cantante. Al che, imbarazzati, gli dicono che ero uscito io a fare le telepromozioni. Appena finisco mi chiamano, bianchi in volto: devi andare da Salvetti. Ecco, ho pensato, è successo il patatrac. Entro nella sua stanza e mi dice: “Gerry Scotti? L’anno prossimo il Festivalbar lo presenti tu”». (Qui il conduttore si commuove, succederà altre volte ndr).
Una sorpresa totale.
«Non era nemmeno nelle mie speranze. Questo è stato il primo grande atto contro la mia previsione e anche contro la mia volontà».
Davvero non si era mai immaginato presentatore in tv? Nemmeno da bambino?
«Ero un ragazzino timido. Se c’era la recita di fine anno non alzavo certo la mano per partecipare, nemmeno per presentare, quindi dire che ce l’avevo nel dna sarebbe raccontare una frottola. Quando avevo 12 anni mio zio Paolino mi regalò il magnetofono geloso, per registrare le canzoni che passavano in radio: era il nostro Spotify. Quando ho sentito per la prima volta la mia voce registrata con quello strumento mi ha dato un tale fastidio che ho cancellato il nastro».
Eppure è stata un’escalation...
«In tv conducevo programmi musicali. Un giorno, nel parcheggio di Mediaset incontro Fatma Ruffini, la signora della tv. Mi guarda e mi dice: “Ti devo parlare; domani alle 11 in ufficio da me”. Una volta lì, mi chiede: “Sei contento di fare quello che fai?”. “Non mi sembra vero signora”, rispondo. Ma lei fa cenno di no con il dito e dice: “Tu sei adatto per essere formato famiglia: l’anno prossimo condurrai Il gioco dei Nove».
Felice?
«Macché. È un po’ come se a uno che oggi conduce X Factor dicessero di andare a fare il giochino tv delle sette di sera. Ma anche per Vianello ero la persona giusta. Per me era una notizia ferale: non mi sentivo all’altezza, non mi sentivo nel ruolo. Non avevo idea, quando sono entrato in quello studio, che per 35 anni sarebbe diventato il mio lavoro, la mia vita e il modo in cui tutti gli italiani mi hanno conosciuto».
Oggi ha fatto pace con questa dimensione?
«Ora è il mio momento di pace, in cui stacco e mi diverto. Poi ho fatto tante altre cose, prime serate, e sono continuate a capitarmi eredità che andavano oltre le mie necessità. Quando mi hanno proposto La Corrida pensavo a una candid camera. Come la volta in cui mi hanno detto di fare con Delia Scala la sitcom Io e la mamma».
È vero che i suoi amici sono quelli di sempre?
«Ho perso quelli delle elementari: mi ero trasferito dalla periferia sud alla periferia nord di Milano e allora era come spostarsi da Los Angeles a New York. Ma da lì in poi gli amici sono sempre stati gli stessi, sì. Si sono aggiunti quelli della radio e pochissimi della tv. Il nostro gioco era stare seduti sul marciapiede e indovinare il colore delle prima macchina che sarebbe passata da viale Zara. Il fatto di poter riatterrare ogni volta tra loro mi ha tenuto ben legato al Gerry Scotti che ero e che sono sempre stato».
Se fosse nato a Milano centro sarebbe stato la stessa persona?
Il Festivalbar
Nell’87 entrai all’Arena di Verona per fare la pubblicità delle patatine Dagli spalti si alzò un boato. Il patron Salvetti mi convocò: l’anno prossimo lo conduci tu
«Ho sfiorato Milano centro: sono andato al liceo classico Carducci e non era proprio pieno di figli di operai, anzi. Eravamo solo io e il signor Villa (che è da sempre il suo ufficio stampa). La nostra presenza faceva arrabbiare alcuni professori retrogradi. Alle mie prime difficoltà in greco e latino avevano detto a mia mamma: dovevate mandarlo a fare una scuola professionale».
E i suoi compagni? Come erano?
«Arrivavano a scuola con le Maserati, le Jaguar, perfino una Lamborghini. Il nostro sfogo era fidanzarci con le figlie della Milano bene. Eravamo ben voluti, andavo anche a fare i compiti da loro. Entravo in queste case e vedevo maggiordomi, sei, sette stanze... Io vivevo in due stanze più servizio con i miei genitori. Ogni tanto qualche compagna veniva a studiare da me e il giorno dopo, in classe, mi chiedevano tutti: ma veramente a casa tua c’è la torta ogni giorno? Ho scoperto che questi figli della Milano più ricca avevano forme di ristrettezze che io, figlio di operai, non avevo. Da me la ciambella di mia mamma non mancava mai. E lì ho capito che i benefit della vita sono altri».
Non era a disagio di fronte a tanta ricchezza?
«No, non ho mai vissuto la mia differenza con rabbia. Venivo da un ambiente umile ma dignitoso, dove se andavi in cortile senza merenda qualcuno che te la offriva lo trovavi e se volevi andare a fare un giro in bici ma non l’avevi, c’era chi te la prestava. Non mi è mai mancato niente mentre in quelle famiglie di classi sociali più agiate credo mancassero un sacco di cose».
Come è andata con l’Università?
«Volevo studiare Architettura ma era una delle facoltà più sulle barricate allora, sempre occupata. Mi rivedo con mio papà al Politecnico, pronto per iscrivermi: c’erano ragazzi con spinelli sulle scale, cartelloni con frasi irriferibili. Mio padre disse solo: “Non farmi questo” (e, ancora una volta, la voce si spezza, ndr). Pensava a tutti i sacrifici per farmi fare il liceo... Così, dopo una riunione di famiglia con gli zii, su votazione si optò per Giurisprudenza. Sarei diventato notaio, sono arrivato a due esami dalla tesi».
Poi la strada ha preso un altro corso. Parlando di bivi: avrebbe mai potuto diventare attore?
«A un certo punto ai piani alti di Mediaset si erano fissati di farmi fare la fiction. Era arrivata la sitcom Finalmente soli, poi un film di Natale con Banfi... È stato doloroso rinunciare: recitare mi piaceva anche se era un altro lavoro».
Qualche rammarico?
«Due. Enzo Garinei, sapendo che il mio mito è Johnny Dorelli, mi chiese di fare un grande Aggiungi un posto a tavola. Mi pareva una cosa enorme e non ho avuto nemmeno il coraggio di rispondergli, non me lo perdono. Un altro grande che si era inventato una cosa per me era Bud Spencer: avrei pagato, anche in quel caso, per accettare ma erano proposte che mi avrebbero portato via mesi, come potevo? Però non ho nulla di cui mi vergogno o che non rifarei».
Compresa la politica?
«Ah no, parlavo della mia professione. Quando ho accettato di essere il candidato dei giovani socialisti di Milano – senza essere iscritto al partito – non pensavo di prendere 10mila voti. Come non pensavo che non mi dessero niente da fare, cosa che mi lasciava sgomento. Se nella mia carriera sento di aver ricevuto molto perché ho dato molto, nella mia esperienza politica ho ricevuto poco perché ho dato poco. Poi, per 10 anni non sono più andato alle assemblee di condominio e non ho più votato. Ero disgustato».
Ora ha ripreso a votare?
«Sì, ma ho vissuto male quella esperienza. Mi restano i famosi mille euro di pensione a cui voglio rinunciare: l’ho già detto a tre presidenti del consiglio e lo dirò anche a Giorgia Meloni. Mi suggeriscono di darli in beneficenza: c’ero arrivato. Ma vorrei non essere costretto a ritirarli. Da quando ne parlo sa quanti altri ex onorevoli mi hanno scritto per unirsi a questa idea? Zero».
Dica: a casa sua oggi c’è la torta tutti i giorni?
«C’è, c’è. Quando avevo quarant’anni, in poco tempo sono morti i miei genitori e c’è stato il mio divorzio. Parevano bruciate di colpo tutte le statuine del presepe che rappresentava il mio concetto di famiglia. Poi, assieme ai miei amici, a mio figlio e alla famiglia che ho ricostruito con Gabriella e i suoi figli, sono riuscito a portare avanti i valori in cui credo. A gennaio Edoardo mi renderà di nuovo nonno e sono riconosciuto come figura paterna anche dai figli della mia compagna: sono il rompiscatole che dice di spegnere la luce o non far scorrere l’acqua in casa. Ora sono grandi, ma quante notti sono stato sveglio aspettando uno o l’altro che rientrasse... loro sono la mia ancora di salvezza, mi fanno sentire un uomo vivo e una persona qualsiasi».
Perché Gabriella non è diventata sua moglie?
«Ci stiamo studiando (ride). Non so quante sarebbero riuscite a stare tanti anni con un uomo nazionalpopolare come me, io so che avevo assolutamente bisogno di una donna come lei. Non ama il clamore, quasi la infastidisce».
Il complimento più bello che le fanno?
«Fino a pochi anni fa era che ero come apparivo in tv. Oggi sempre più ragazzi mi dicono: siamo cresciuti con te (occhi lucidi). Mi fanno sentire di avere una famiglia grandissima».