La Stampa, 24 novembre 2022
La manovra della Meloni non pensa alla Sanità
Nella manovra appena varata dal governo «la sanità colleziona zero tituli», commenta con una battuta il presidente della fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta. In realtà allo striminzito «Titolo VI» della legge di Bilancio ci sono due miliardi in più, ma 1,4 sono vincolati ad ammortizzare i costi del caro bollette che continuerà a pesare sui bilanci di Asl e ospedali. Somme che non coprono neanche lontanamente le falle pregresse causate dal Covid e dagli stessi costi energetici. Per non parlare del fatto che la manovra lascia così com’erano gli anacronistici tetti di spesa vecchi di decenni per il personale e per il recupero delle liste d’attesa. Tradendo così le attese di chi, dopo aver visto portare la nostra sanità sugli scudi durante l’emergenza Covid, sperava ora in un trattamento migliore. Anche per recuperare i milioni di prestazioni saltate con la pandemia.
«Tra caro energia, super-inflazione e spese per il Covid, nella sanità si è aperto un buco da 3,4 miliardi di euro e in queste condizioni diventa difficile assicurare le migliori cure a tutti, ridurre le liste di attesa e assumere i sanitari che servono a far sì che le nuove Case e Ospedali di comunità nel territorio non restino scatole vuote». È in sintesi il contenuto della missiva che il presidente della Conferenza delle Regioni, il leghista friulano Massimiliano Fedriga, ha consegnato prima della manovra al ministro della Salute, Orazio Schillaci, che proprio le questioni personale e tempi di attesa ha messo in cima alla sua agenda.
Nel documento sottoscritto all’unanimità, sia dalle Regioni rette del centrodestra sia da quelle di centrosinistra, si ricorda che «i maggiori oneri indotti dalla pandemia, pari a 4,6 miliardi per il solo anno 2021, hanno trovato copertura parziale nelle risorse previste dai decreti emergenziali e dai recenti provvedimenti governativi». E in effetti secondo i conti fatti dagli esperti regionali il governo di suo ci ha messo 1,6 miliardi, lasciando a carico delle amministrazioni locali i restanti 3. Che diventano 3,4 se si aggiungono i 400 milioni non coperti del miliardo speso in super bollette generate dal caro-energia. Per questo le Regioni si dicono «preoccupate per lo scenario economico e programmatico» della Nadef, «che indica un ridimensionamento della spesa sanitaria prevista per il triennio 2023-2025». Risorse che «tutte le Regioni e province autonome concordano sulla necessità di incrementare».
Anche perché, si legge sempre nel documento, «il fabbisogno di personale sanitario sta assumendo i connotati di un’emergenza nazionale». Il governo per le nuove assunzioni ha consentito lo sforamento fino a un miliardo di euro dell’anacronistico tetto di spesa che per medici, infermieri e il restante stuolo di lavoratori della sanità è fermo alla spesa del lontano 2004, diminuita per giunta dell’1,4%. Il problema è che quel miliardo le Regioni dovrebbero ricavarlo dal fondo sanitario che loro stesse considerano ampiamente sottostimato. E così non solo diventa difficile frenare la desertificazione delle corsie degli ospedali, ma è ancor più problematico far partire Case e Ospedali di comunità finanziati dal Pnrr, che per il rilancio dell’assistenza territoriale investe 7 miliardi di euro. Nelle Case di comunità dovrebbero infatti lavorare in team medici di famiglia, specialisti e infermieri 7 giorni su 7, fornendo anche accertamenti diagnostici di base, in modo da fare filtro rispetto ai congestionati pronto soccorso. Mentre gli Ospedali di comunità sarebbero a forte conduzione infermieristica, dovendo dare assistenza ai malati che non hanno più bisogno dell’ospedale tradizionale ma che nemmeno possono essere lasciati soli a casa. Ora i cantieri stanno già partendo, ma con quali soldi si pagherà chi deve lavorare dentro queste strutture resta un mistero.
Per i sempre più stressati medici e infermieri che lavorano nell’emergenza-urgenza la manovra stanzia invece 200 milioni, così come promesso da Schillaci. Ma non saranno questi a decongestionare i pronto soccorso, intasati sia per il mancato filtro del territorio sia per la carenza di letti nei reparti, che fa sostare più del lecito sulle lettighe delle astanterie i pazienti bisognosi di ricovero. Viene poi rinnovato con 650 milioni il fondo per l’acquisto di vaccini e farmaci anti Covid, a conferma che l’epidemia non è finita.
Infine le liste d’attesa. Anche per abbattere queste servirebbero più medici. Così come sarebbe necessario poter acquistare più prestazioni, soprattutto diagnostiche, dal privato. Missione impossibile con l’attuale tetto di spesa fissato per legge dieci anni fa, che le Regioni chiedono ora al governo di superare per consentire «il recupero delle prestazioni rinviate durante la pandemia». E alleggerire le liste d’attesa che stanno rendendo sempre più virtuale l’accesso gratuito alle cure.