La Stampa, 23 novembre 2022
Intervista a Jonathan Lethem
Lo scrittore newyorkese Jonathan Lethem è uno dei grandi narratori americani, e come i grandi narratori è capace di cogliere il senso profondo di un luogo, nella fattispecie gli Stati Uniti delle periferie e delle grandi città, della desolazione e dello smarrimento, e di restituirlo ai lettori grazie a un mix di linguaggi e sguardi, che passano dalla fantascienza al noir, dalla narrativa alta a quella popolare, per arrivare fino al pop estremo dei fumetti Marvel. Ha vinto il National Book Critics Circle Award per la narrativa, scrive per il New Yorker, Harper’s magazine, Rolling Stones e The New York Times e insegna scrittura creativa al Pomona Collage in California. Lo raggiungiamo via Zoom nella sua casa di New York, con la valigia e il passaporto già pronti per Torino, dove oggi terrà una lectio intitolata "America Today", una riflessione a partire dalle suggestive fotografie di Eveningside, la mostra di Gregory Credwson alle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo in collaborazione con il Circolo dei Lettori, sui sentimenti dell’America di oggi e sulla solidità del sogno americano.
Allora, a che punto è l’America?
«Le immagini di Gregory Credwson mi hanno fatto pensare a quello che abbiamo avuto in comune invecchiando in questa America come fabbrica dei sogni. Siamo due uomini bianchi culturalmente privilegiati cresciuti in un quartiere molto borderline di Brooklyn pensando di partecipare al grande sogno americano che si è rivelato un assurdo incubo distopico. Questa doppia visione, il senso che vi è stato raccontato che qualcosa funziona e invece non funziona, è la condizione probabilmente di quasi tutti i giovani negli Stati Uniti oggi. Si guardano intorno e vedono i resti di un impero collassato e la biologia del pianeta che collassa. Se mai un Paese è stato creato come una narrazione, questi sono gli Stati Uniti ed è una storia di fantascienza"
In che senso?
«La fantastica certezza di potersi sempre lasciare il passato alle spalle, abbandonare la storia, reinventarsi attraverso la tecnologia e i desideri, e iniziare da zero, come se fosse un nuovo pianeta. In realtà la civilizzazione americana è globale, ha una storia, è connessa all’Europa, connessa con la vita di ogni persona su questa terra e non c’è mai stato un momento in cui tutto questo è stato più ovvio. Quindi la storia della fantascienza negli Stati Uniti è collassata nell’assurdità. Cosa rimane? Un senso di possibilità per una reinvenzione più autentica. E questa è la questione cruciale oggi».
Le fotografie di Credwson colgono questo senso dell’assurdo. Sono foto mediate e lavorate, un po’ come la narrazione di uno scrittore.
«Siamo cresciuti insieme a Brooklyn negli anni Settanta. E sono decenni che seguo il suo lavoro, anche se non sono mai stato sul set di una sua creazione. Le sue foto sono vere e proprie narrazioni, perché contengono una storia e lui riesce a comprimere una narrazione in una singola immagine. Questa mise en scene è simile a quella che fa uno scrittore».
Per spiegare cosa è successo all’America forse bisogna anche capire perché dalla controcultura degli anni Settanta, siamo arrivati a Trump e all’attacco dell’aborto.
«Anche nel periodo in cui la visione radicale e la controcultura erano fiorenti, come nella Parigi del ’68, negli Stati Uniti c’è sempre stata una enorme parte della popolazione che vive nella la paura, un vero e proprio terrore, verso il cambiamento. E questo terrore non è mai cambiato, ed è stato coltivato per decenni. È iniziato dalla manipolazione intelligente e pericolosa di Richard Nixon e da allora si è mosso lungo una linea diritta e ininterrotta fino a un punto in cui adesso abbiamo due culture e due realtà. E questa è una storia anche di manipolazioni dei media, ma credo che in Italia, avendo avuto Berlusconi, siete ben consapevoli. Noi abbiamo avuto il gruppo Murdoch, che ha creato una fabbrica di realtà alternativa».
Si torna alla narrazione.
«Sì. Anche in questo senso la società americana, come dicevo prima, si fonda sulla narrazione, sulla fiction e su una narrativa. E questa narrativa alternativa è diventata dominante e per la gente che ascolta la loro, quella è diventata la realtà e questa parte della popolazione è tenuta in uno stato di paura e di rabbia».
Viene prima la narrazione o la realtà?
«Si interfacciano. Donald Trump è più il prodotto di una catastrofe che il creatore di questa catastrofe. Bisogna tornare a Nixon, per capirlo. Prendiamo il caso dell’aborto. La narrazione è diventata realtà ed è una realtà da incubo.
Nel suo ultimo libro pubblicato in Italia, L’Arresto, lei descrive un mondo in cui la modernità è messa in pausa. La tecnologia non funziona più, tutto si ferma. Anche i miliardari della Silicon Valley hanno creato una propria narrativa. Internet agli inizi era sinonimo di libertà, ora è diventato qualcosa di diverso. Cosa di preciso?
«In questa domanda c’è la risposta di quello che io sospetto sia il desiderio di controllare la società, il desiderio di vedere qualcuno che si proclama l’imperatore della tecnologia. Ogni invenzione tecnologica è neutra e ciò che conta sono gli operatori interni, e noi siamo questi operatori interni, volontari o involontari, che creano questo sistema malsano e incoerente e lo amplificano. In alcuni casi i risultati sono fantastici, in altri distruttivi, ma il vero vincitore è il sistema stesso».
La soluzione è tornare a un mondo bucolico e coltivare la terra?
«La soluzione pastorale è alla portata di poche persone privilegiate. È un’idea allegorica, una metafora. Ma per me è interessante pensare in termini di comunità locali, nel senso più antico del credo anarchico, alle sue radici, di comunità di persone».
Lei ha detto di aver letto due volte l’intera opera di Philip K. Dick e di aver visto Blade Runner 14 volte. Perché la letteratura sta diventando sempre più post-apocalittica?
«La fantascienza era uno strumento molto esotico, quando ero un ragazzo: serviva a guardare la realtà oltre il proprio orizzonte e a pensare alle proprie ansie nate dalla Grande guerra. Oggi quelle fantasie sono diventate luoghi comuni. Ogni teenager americano è cresciuto leggendo storie distopiche e le dà per scontate. Ma le trova anche piuttosto noiose, perché viviamo già in una distopia».