la Repubblica, 23 novembre 2022
Ecco perché è stato riaperto il caso Unabomber
In una stanza umida e ammuffita del porto di Trieste, in decine di scatoloni di cartone, c’erano quelle che potrebbero rivelarsi le chiavi di un mistero che dura da 28 anni.
Unabomber, così era stato battezzato il bombarolo che tra il 1994 e il 2006 ha terrorizzato il Nordest con 34 attentati e una scia di persone mutilate. L’indagine sviluppata in quegli anni non aveva portato a nulla, per tutti era rimasto semplicemente un fantasma. Ma i tempi cambiano, le tecnologie investigative si evolvono e il giornalismo digitale gioca un ruolo da protagonista. Così, dopo tutto questo tempo, la Procura di Trieste riapre l’indagine grazie a un podcast edito da Gedi nella piattaforma OnePodcast: “Fantasma — Il caso Unabomber”, è il titolo. Il giornalista Marco Maisano, 33 anni, di Arezzo, aveva ottenuto l’autorizzazione a esaminare la montagna di reperti e documenti accumulati durante le indagini coordinate da cinque procure. Dopo un anno di lavoro riparte la caccia a questo fantasmasanguinario.
Maisano, come ci è riuscito?
«C’è una coincidenza su cui io e i coautori Ettore Mengozzi e Francesco Bozzi abbiamo riflettuto.
La banca dati del Dna nasce nel 2009. Nello stesso anno viene smantellato il superpool investigativo creato per Unabomber. A nessuno è mai venuto in mente di inserire alcuni reperti in questa banca dati. Quando ne ho parlato con il procuratore capo di Trieste, Antonio De Nicolo, lui mi ha detto: i reperti sono nell’archivio. Se lei me li trova…».
E lei cosa ha fatto?
«Mi sono messo alla ricerca. Il magazzino era uno spazio molto simile a un box auto, pieno di scatoloni. C’erano i vestiti delle vittime, l’inginocchiatoio della chiesa di Sant’Agnese, il capello trovato nell’uovo esplosivo al supermercato “Il Continente” di Portogruaro.
Quando me lo sono trovato in mano, quasi non ci credevo».
Quali sono i reperti chiave?
«Il capello bianco del supermercato, altri due capelli trovati sul luogo di un attentato a San Stino di Livenza e dei peli attaccati al nastro adesivo di un altro ordigno. Una voltarecuperati i reperti, ho scritto una lettera ufficiale e l’ho firmata insieme alle due vittime. Così abbiamo chiesto ufficialmente la riapertura del caso».
Come mai ha scelto di occuparsi proprio del caso Unabomber?
«Me ne aveva parlato un carissimo amico, il coautore Ettore Mengozzi.
La storia mi ha entusiasmato e così, un anno fa, abbiamo cominciato a raccogliere le testimonianze. Siamo partiti dall’ingegnere Elvo Zornitta, a lungo accusato di essere il bombarolo seriale, salvo poi essere prosciolto. Poi abbiamo sentito le duevittime, Francesca Girardi e Greta Momesso. In questo podcast ci sono tanti ingredienti: la cronaca nera, la giudiziaria. E poi le storie umane, a partire da alcune delle quali è possibile fare importanti riflessioni sul nostro sistema giudiziario».
Cosa intende dire?
«Dal 1994 al 2009, il solo condannato è stato un poliziotto e l’unica persona su cui si erano concentrate le indagini ha poi avuto una archiviazione totale. Ma se non fosse stato per un’intuizione della difesa, l’ingegner Zornitta sarebbe ancora in carcere. Da innocente».
C’è un valore aggiunto nell’uso dei podcast a servizio del giornalismo?
«La formula dell’intervista audio mette le persone a loro agio. Il magistrato che si fa intervistare si sente molto più sereno, sa che il senso non potrà essere stravolto. Lo stesso vale per gli altri protagonisti».
Tornando alle investigazioni scientifiche, se il profilo genetico del bombarolo non è in banca datinon pensa ci sia il rischio di tornare a un nulla di fatto?
«In banca dati non deve per forza esserci lui, basta anche un parente.
Poi, da quello, si può risalire a lui».
Ma se davvero era un militare americano di stanza alla base di Aviano? Non lo si troverebbe mai.
«Non ho mai creduto troppo alla pista del militare straniero. Credo che le prime bombe siano state confezionate da un gruppo di persone. Da questo gruppo, poi, si è staccato un individuo che ha continuato da solo».