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 2022  novembre 21 Lunedì calendario

La strategia di Deng

Sbagliò Washington, negli anni Settanta, a ritenere che le ritrovate relazioni tra Stati Uniti e Cina fossero destinate a migliorare sempre di più. O ad immaginare che comunque non sarebbero mai tornate ad essere ciò che erano state tra il 1949, anno della vittoria di Mao Zedong, e il 1972. Nel 1971, per merito di un’intuizione di Henry Kissinger, era iniziato il disgelo dei rapporti tra i due Paesi che in tempi rapidi portò ad un incontro tra lo stesso Mao e l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon (21 febbraio 1972). Da quel momento l’intero mondo occidentale (o quasi) considerò quella del Partito comunista cinese un’avanzata inesorabile verso la democrazia. E fece una certa confusione nella valutazione delle riforme economiche con le quali verso la fine di quegli anni Settanta era stata gradualmente reintrodotta in Cina la proprietà privata. La Cina fu considerata come se fosse in procinto di adottare, sia pur gradualmente, un «sistema liberale», ciò che avrebbe reso di per sé inscalfibile il rapporto con gli Usa. Un errato calcolo di prospettiva di cui ora si pagano le conseguenze e che è ben individuabile fin dall’inizio della distensione tra Stati Uniti e regime comunista cinese. Di questo errore si occupa Frank Dikötter nell’interessantissimo La Cina dopo Mao. Nascita di una superpotenza, pubblicato da Marsilio.
Kissinger ma soprattutto «altri ingenui ammiratori del leader cinese», scrive Dikötter, «videro nella scommessa di Mao un colpo di genio strategico», non considerando però «che si basava su una delle grandi incomprensioni geopolitiche del XX secolo». Quale? La Cina riteneva che l’America fosse «una potenza segnata da un fatale declino». E che la visita di Nixon fosse un implicito riconoscimento di questo proprio decadimento. Nel corso di una visita in Cina nel 1980, l’economista Milton Friedman si sorprese che i principali esperti di economia e i direttori delle banche erano «incredibilmente ignoranti sul funzionamento del mercato», ma insistevano a parlare di «contraddizioni interne del capitalismo». Nello stesso tempo gli Stati Uniti si illusero che fosse stata invece la Cina a compiere un atto di sottomissione. Questo fraintendimento avrebbe condizionato le leadership di Pechino e di Washington nei decenni successivi. Cinquant’anni dopo siamo alle prese con le conseguenze di quel fraintendimento.
Il libro di Dikötter si basa su circa seicento nuovi documenti provenienti da una decina di archivi municipali e provinciali e su una serie di memorie inedite. Tra queste la più importante è costituita dai diari segreti di Li Rui, che era stato segretario personale di Mao e aveva trascorso vent’anni in prigione per aver osato parlare della carestia nel 1959. Poco dopo la morte di Mao, a Li Rui fu concesso di entrare nel Comitato centrale. Fu per molti anni vicedirettore del dipartimento dell’organizzazione il cui compito era di valutare, nominare e proporre i membri del partito per la promozione. I diari riportano in modo dettagliato le conversazioni di Li Rui con funzionari ad altissimo livello e si spingono fino al 2012 (anno dell’ascesa al potere di Xi Jinping). Ed è a quell’anno che si ferma il libro di Dikötter.
L’immagine che restituiscono gli archivi, scrive Dikötter, non è quella di un partito con una visione chiara di come guidare il Paese verso la prosperità. Anzi non c’è una visione chiara quasi su niente. La Cina assomiglia piuttosto «a una petroliera che da lontano ha un aspetto imponente, con il capitano e i suoi sottoposti orgogliosamente in piedi sul ponte». Ma da vicino appare in modo assai diverso. La verità che si può scorgere dai diari di Li Rui e da numerosi altri documenti è che «sottocoperta i marinai sono disperatamente impegnati a pompare fuori l’acqua e a riparare i buchi per tenere l’imbarcazione a galla». Non c’è nessun «grande piano», nessuna «strategia segreta», bensì «una serie infinita di eventi imprevedibili, conseguenze impreviste e cambiamenti improvvisi». Oltre naturalmente a «un’interminabile lotta per il potere dietro le quinte».
Lotta che iniziò nel 1976, l’anno della morte di Mao, definito dai suoi connazionali fino a quel momento «il grande timoniere». Alfonso Celotto in L’enigma della successione (Feltrinelli), dopo un esame di come andò il non lineare trapasso dei poteri al momento della morte di Diocleziano, Maometto e Ivan il Terribile, scrive che per ciò che riguarda i grandi personaggi della storia è fondamentale studiare il momento del trapasso dei poteri. Quel frangente riconduce a «un problema primordiale della natura umana» che «con Freud andrebbe riportato al dilemma originario di Totem e Tabù». Mao non fa eccezione.
Ai primi di gennaio del 1976 era morto l’ex ministro degli Esteri Zhou Enlai, un gigante della storia comunista cinese con il quale Mao aveva avuto un rapporto complesso. Era stato Zhou Enlai nell’estate del 1971 l’artefice della svolta nei rapporti con gli Stati Uniti conclusasi con il viaggio a Pechino di Nixon nel febbraio del 1972. Da quel momento sembrò a tutti che Zhou sarebbe stato il successore naturale di Mao. In realtà in quello stesso 1972 gli fu diagnosticato un cancro di cui mai si parlò pubblicamente e che non fu adeguatamente curato. Nel gennaio del 1975, un anno prima della sua morte, Zhou Enlai, con il consenso di Mao, aveva lanciato il programma delle «quattro modernizzazioni». Programma al quale aveva contribuito Deng Xiaoping, riabilitato nel 1974 dopo un lungo periodo di epurazione e chiamato da Zhou al proprio fianco.

Fu Deng che pronunciò l’orazione funebre per Zhou Enlai. Ma pochi giorni dopo il funerale di Zhou venne progressivamente allo scoperto Hua Guofeng, destinato da Mao alla propria successione. Deng fu nuovamente epurato. Per lui si metteva male, molto male. In marzo un quotidiano di Shanghai – controllato dalla moglie di Mao, Jiang Qing, e dai suoi uomini di fiducia (la cosiddetta «banda dei quattro») – pubblicò un editoriale in cui, pur senza farne i nomi, si accusavano il defunto Zhou e Deng di essere «fiancheggiatori dei capitalisti annidati all’interno del Partito comunista». Per Deng sembrava esser giunto il momento della fine. Stavolta definitiva.
Ma all’inizio di aprile si verificò un episodio clamoroso. Nel giorno del Qingming, tradizionalmente dedicato alla pulizia delle tombe, centinaia di migliaia di persone si riversarono su piazza Tienanmen e deposero corone di fiori alla base del monumento agli eroi. Corone di fiori in onore di Zhou Enlai. Deng fu considerato l’ispiratore della sorprendente manifestazione e venne convocato davanti a una riunione improvvisata del Politburo. Zhang Chunqiao, membro della «banda dei quattro», lo minacciò con queste parole: «Farai la fine di Imre Nagy», riferendosi all’uomo che nel 1956 aveva guidato la rivoluzione ungherese contro l’Urss e, per punizione, due anni dopo era stato impiccato. Deng restò in silenzio. Accettò di essere accantonato, ma ad un tempo mise agli atti di godere di un consenso fin ad allora insospettato.
Il 9 settembre Mao, che aveva avallato la rimozione di Deng, morì a causa dell’aggravamento di una sclerosi laterale amiotrofica (non diagnosticata) che aveva provocato un rapido deterioramento delle cellule nervose preposte al controllo dei muscoli. Hua Guofeng, il successore designato dallo stesso Mao, temette di finire nel mirino dell’ala più radicale del partito. Convocò per il 6 ottobre – meno di un mese dopo la morte di Mao – il Politburo (con il pretesto di discutere del quinto volume delle Opere scelte del defunto presidente). E in quella sede fece arrestare l’intera «banda dei quattro». Jiang Qing – che, forse per un presentimento, non si era presentata alla riunione – fu imprigionata successivamente. I «quattro» vennero processati e condannati – anche loro per aver «tradito il Paese» in combutta con non identificate «potenze straniere» – con una sentenza di centoquindici pagine. Hua si sentiva a questo punto saldamente in sella.
Ma l’8 gennaio del 1977, nel primo anniversario della scomparsa di Zhou Enlai, alcuni manifestanti si ripresentarono in piazza Tienanmen. Uno di loro, Li Dongmin, attaccò un manifesto in cui si chiedeva il ritorno di Deng. Hua fece stroncare la manifestazione ma ne comprese il senso e sostanzialmente accolse il messaggio contenuto nel manifesto di Li Dongmin. In tempi per la Cina assai veloci recuperò Deng.
A fine estate del 1978 si ebbe un nuovo sussulto. Su un muro di mattoni nei pressi di una vecchia stazione degli autobus nel quartiere pechinese di Xidan cominciarono ad apparire manifesti scritti a mano che chiedevano la riabilitazione di esponenti epurati ai tempi di Mao. Secondo Linda Jaivin, in Breve storia della Cina (Bompiani), quella parete ribattezzata «Muro della democrazia» aiutò Deng «a dimostrare anche ai membri più riluttanti della leadership del Pcc che il popolo cinese non credeva più nel maoismo».

In novembre Deng concesse un’intervista al giornalista americano Robert Novak in cui definì il «Muro della democrazia» un’«ottima cosa». Hua capì l’antifona, chiese ai propri colleghi di non rivolgersi più a lui con il titolo di «presidente». E la terza sessione plenaria dell’undicesimo Comitato centrale del Partito comunista (dicembre del 1978), pur limitandosi a adottare formalmente il principio della «leadership collettiva», nei fatti trasferì nelle mani di Deng gran parte dei poteri che fino a quel momento erano stati in quelle di Hua Guofeng. A dicembre Deng era ormai padrone del partito.
Il nuovo leader, ribattezzato «piccolo timoniere», mise subito in chiaro che voleva far crescere la Cina soprattutto sotto il profilo economico. In tempi rapidi e senza tener conto di vincoli ideologici. Quella di Deng, scrive Beatrice Gallelli in La Cina di oggi in otto parole (il Mulino), fu un’opera di «trasformazione totale dell’agenda politica». E, con essa, «anche dei significati attribuiti alle parole chiave del discorso politico di epoca maoista». In particolare, laddove, «stravolgendo le relazioni fino a quel momento vigenti tra sfera economica, politica e sociale», Deng affermò che «povertà non è sinonimo di socialismo» e «l’obiettivo di quest’ultimo è quello di rendere il Paese prospero e potente».

Per agevolare questo nuovo corso – e in funzione antisovietica – Deng accelerò l’avvicinamento agli Stati Uniti. Ciò che, secondo Dikötter, indusse in errore alcuni membri della leadership statunitense, primi tra tutti il consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski e il senatore Henry Jackson. I quali ritennero che quella accelerazione avesse un carattere definitivo. In realtà, di ritorno da un viaggio a Washington dove aveva «conquistato» Jimmy Carter strappandogli rilevanti concessioni in campo economico, il «piccolo timoniere» lasciò chiaramente intendere che la sua era una mossa tattica. E sostenne con i suoi collaboratori che quella americana era una «democrazia fasulla». Esortò poi il gruppo dirigente del Partito comunista cinese a non sbilanciarsi in aperture di credito nei confronti dei nuovi amici. La dirigenza cinese, come ha intelligentemente scritto Giovanni B. Andornino in Cina. Prospettive di un Paese in trasformazione (il Mulino), assecondò l’ammonimento di Deng a tenere un «basso profilo» in politica estera. Deng, prosegue Andornino, era conscio del fatto che la crescita economica avrebbe paradossalmente reso più delicato il posizionamento internazionale del Paese, esponendolo al rischio esistenziale di essere presto o tardi considerato una minaccia da parte degli Stati Uniti frattanto usciti vincitori dalla competizione con l’Unione Sovietica». Anche nell’epoca successiva sotto la guida di Jiang Zemin, nota sempre Andornino, furono considerate controproducenti e perciò evitate «politiche che potessero istigare reazioni respingenti da parte di Washington».
Nel frattempo, hanno notato Clive Hamilton e Mareike Ohlberg in La mano invisibile. Come il Partito comunista cinese sta rimodellando il mondo (Fazi Editore), Pechino «ha lavorato fin dagli anni Settanta per riuscire a estendere la sua influenza sul Congresso degli Stati Uniti». Congresso che, scrivono ancora Hamilton e Ohlberg, «qualche volta è stato ammutolito dall’influenza esercitata dai membri filocinesi». Forte del sostegno statunitense e con l’Unione Sovietica in crisi, Deng recuperò la figura di Mao («un grande marxista, un grande rivoluzionario, stratega e teorico proletario») e a fine 1980 si liberò definitivamente di Hua che, nota Dikötter, «finì nel calderone insieme alla banda dei quattro e alla Rivoluzione culturale». Da quel momento l’opera di Deng fu interamente volta a consolidare i propri poteri. Evitando di fare della Cina un Paese satellite degli Stati Uniti.