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 2022  novembre 21 Lunedì calendario

De Pau e la vita dorata tra i boss calabresi

«Io stavo proprio su un altro pianeta rispetto agli altri» raccontava Giandavide De Pau nel marzo 2014 a un ragazzo già ben inserito nella malavita metropolitana. Lui, «Davide il biondo», poteva contare su rapporti diretti con il boss Michele Senese e altri pezzi grossi della criminalità romana, senza farne mistero. Anzi se ne vantava: «Non stavo in mezzo a persone normali... parlavo... c’avevo il lavoro mio (e qui abbassò la voce, annotò chi ascoltava l’intercettazione, ndr)... stavo proprio su un altro pianeta, con la gente... cioè facevo tutto, pigliavo di là... facevo favori...».
Poi però qualcosa s’era rotto. «Zio Michele» era tornato in galera, insieme ad altri alleati, e gli affari non andavano più come prima: «Io sai perché sono cascato in disgrazia? Non è per aiutare la gente... a me mi sono andati carcerati due, tre, quattro persone che per davvero hanno fatto la storia al mondo... Io c’ho quell’amico mio quello che sta latitante... Quelli sono gente con una batteria che c’hanno i coglioni così... quelli c’avevano vent’anni, contavano due miliardi a settimana aho’... eh calabrotti doc, milioner». Calabresi di origine controllata e milionari, che nel contesto criminale romano significa trafficanti di droga ad alto livello.
C’era esaltazione e rammarico nelle parole di Giandavide De Pau, che grazie a quel business s’era fatto un nome nel sottobosco malavitoso della capitale. Scalando posizioni e arrivando a trattare cocaina come si fa con le azioni in Borsa, finché le alterne vicende di complici arrestati e indagini sempre più penetranti l’hanno portato ad avere rapporti complicati nel suo stesso mondo, e poi in carcere. Tornato libero, sotto processo per una lunga sfilza di reati, è evidentemente rimasto prigioniero di relazioni che non funzionavano più come prima, e di ossessioni che l’hanno precipitato nel baratro dove ha trascinato le sue ultime vittime. Niente a che vedere con gli sfarzi delinquenziali di un tempo, di cui resta traccia nelle intercettazioni realizzate durante le inchieste che l’hanno visto protagonista.
A maggio 2013, al chiuso della Toyota IQ sulla quale scarrozzava Senese parcheggiata al benzinaio di Corso Francia, utilizzato come «ufficio» da Massimo Carminati, «Davide il biondo» parlava con un certo Bruno che i carabinieri del Ros non riuscirono a identificare; un intermediario di cocaina che gli proponeva una partita a 43.000 euro al chilo: «Ne è arrivata un’altra, ma vogliono di più... 4-3, 4-3... domani vogliono i soldi... è buona questa». L’uomo aveva con sé un «pezzo», e De Pau decretò: «È buono, ammazza... Non sembra rifatta, vedi, un po’ già appiccica... ma 4-3...». Un prezzo considerato un po’ troppo alto, e «il biondo» lasciò intendere che ne avrebbe parlato a cena con Senese, in uno di quei ristoranti dove a «zio Michele» non veniva mai presentato il conto; ai proprietari piaceva farlo mangiare gratis, ma lui lasciava sempre 50 o 60 euro.
Era un rapporto stretto e complesso quello tra il boss Senese e il gregario De Pau, che suscitava le gelosie di altri «colonnelli» poco disposti a subire o sopportare quel legame. «A me ultimamente mi ha deluso – diceva uno di loro —, ha dato troppa confidenza a troppa accozzaglia, incominciando da quello, Giandavide...». Il quale con lo «zio» aveva un debito che – protestavano gli intercettati – Senese non pretendeva venisse saldato con la solita determinazione. «Ho detto... ma Michè, ma questo v’ha da dà ‘sti soldi o no?», sosteneva uno, e l’altro rispondeva di averne parlato anche con De Pau: «Gli ho detto la verità... “daglieli, ce li hai... daglieli un po’ alla volta e ti togli ‘sto cazzo di problema”».
In altre conversazioni registrate c’è invece la traccia dell’impegno del «biondo» nella raccolta di denaro per finanziare il clan Senese dopo che a fine giugno 2013 il capo era tornato in cella. Un arresto arrivato nonostante De Pau l’avesse avvertito con un paio di settimane di anticipo, attraverso un sms inviato a un complice: «Fa’ rintracciare l’avvocato e digli che ha un mandato più 35 persone, me lo hanno mandato a dire tramite quelli del mar». Secondo gli inquirenti «l’avvocato» da mettere sull’avviso era proprio «zio Michele».
Tutte queste intercettazioni, hanno scritto i pubblici ministeri della Procura antimafia di Roma nell’ultima richiesta di arresto, «hanno consentito di dimostrare la continua operatività di De Pau nel settore del narcotraffico, grazie anche alle relazioni con i maggiori referenti delle principali consorterie criminali operanti nella capitale». Ne era consapevole pure la sorella Francesca, ascoltata dai carabinieri tramite la microspia nascosta nella Toyota utilizzata dal fratello, mentre parlava con un amico: «Mi spieghi che avrei dovuto fare? Famme mantené da mio fratello che vende cocaina, eh? Ce l’lo la dignità, anche se poi non sembra ce l’ho».
È stata proprio lei, venerdì scorso dopo gli omicidi delle tre donne, a mettere gli investigatori sulle tracce di Giandavide, venditore e consumatore di droga: «Credo abbia fatto qualcosa di grave».