Corriere della Sera, 21 novembre 2022
Cop 27, chi ha vinto e chi ha perso
Sharm el-Sheikh «I giovani non hanno potuto far sentire le proprie voci a causa del divieto di manifestare». Le parole di Vanessa Nakate, giovane attivista ugandese, danno corpo all’elefante nella stanza della Cop27 che si è chiusa ieri mattina dopo giorni di trattative estenuanti fra ministri e delegati di 197 Paesi. Quella in Egitto è stata la Conferenza sul clima con minore libertà di espressione e critica. E questa è una sconfitta per tutti.
È stata una partita a scacchi con vincitori morali e vincitori reali, che spesso non coincidono. Portano a casa il risultato la Cina assieme al G77 (i Paesi in via di sviluppo) e soprattutto i Paesi vulnerabili e più colpiti dagli impatti del cambiamento climatico, guidati da Sherry Rehman, ministra del Pakistan – finito quest’anno per un terzo sott’acqua per le inondazioni —: hanno ottenuto l’istituzione di un Fondo per le perdite e i danni, anche se i dettagli sono rinviati ad un «comitato di transizione» che dovrà decidere entro fine 2023 chi paga, a chi e con quali strumenti finanziari tradizionali e innovativi (si parla anche di una tassa sull’aviazione). Per ora, è una scatola vuota da riempire di contenuti, ma comunque è un risultato storico che non sarebbe stato raggiunto senza il lavorio diplomatico di Germania e Irlanda, capaci di sbloccare sia la posizione dell’Ue che a trovare soluzioni ponte con gli altri Paesi.
Vinto, anche causa Covid, l’inviato americano John Kerry, che a questa Cop ha incassato ben poco, mentre trionfa ancora una volta l’ambiguità dei cinesi, che evitano sempre gli impegni formali. La grande sorpresa di questa Conferenza è stata la premier delle Barbados, Mia Mottley, che a nome delle isole ha lanciato una proposta dirompente sulla riforma dei prestiti internazionali. Ha raccolto una «standing ovation» quando in sessione plenaria ha spiegato come una tassa del 10% sui profitti delle grandi aziende produttrici di combustibili fossili avrebbe contribuito alla finanza per il clima con 37 miliardi di dollari nei primi 9 mesi del 2022. Cifra che equivale alle perdite economiche dell’alluvione in Pakistan.
Dopo tante critiche per la gestione latitante dei negoziati, escono vincitori l’Egitto e il presidente della Cop Sameh Shoukry. «Sono riusciti a portare a casa l’accordo su Loss&Damage e quindi a farsi rappresentanti delle istanze dei Paesi più vulnerabili, e sicuramente questo darò loro un credito importante – spiega Luca Bergamaschi, direttore della think tank Ecco —. Allo stesso tempo sono vincitori rispetto ad un gioco in difesa per quanto riguarda la questione energetica e questo ha fatto comodo all’altro gruppo che esce vincitore, i produttori di gas e petrolio, come Arabia Saudita, Iran e Russia». Scacco matto all’ambizione, non sono certo loro i campioni della lotta al cambiamento climatico. La dichiarazione finale così non fa passi avanti rispetto al Patto di Glasgow sul tema «mitigazione»: resta la formula blanda sul carbone (riduzione e non eliminazione) che non si amplia a petrolio e gas.
Sospiro di sollievo perché rimane l’impegno «a proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C», senza tornare indietro su questo obbiettivo chiave come avrebbero voluto alcuni produttori di fonti fossili, ma manca una formula più ambiziosa sul raggiungimento del picco delle emissioni nel 2025. E qui entriamo nella sfera degli sconfitti. È stato forte il disappunto del vice-presidente della Commissione europea, Frans Timmermans, che fino all’ultimo ha cercato di collegare il via libera al fondo «perdite e danni» a un maggiore sforzo riguardo i tagli alle emissioni da parte di tutti, e non solo delle nazioni più industrializzate.
Politicamente le potenze sviluppate – Unione europea, Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada – tornano con la valigia vuota, anche perché non hanno ottenuto il riconoscimento formale della Cina come donatore finanziario. Ma, pur vinto, Timmermans esce da questo braccio di ferro come un vincitore morale, il «game changer» che ha cambiato il corso dei negoziati.
Tra gli sconfitti, infine, c’è la scienza che continua a lanciare allarmi inascoltati da chi governa il pianeta. L’ultimo, firmato dall’Unep: senza un ulteriore rafforzamento delle politiche, le temperature globali raggiungeranno i 2,8°C a fine secolo. A quanto ammonteranno allora i danni?