il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2022
In cucina con Tognazzi
Pubblichiamo la prefazione di Ricky Tognazzi alla riedizione del libro di suo padre Ugo, “Il rigettario”.
Nel corso di tutta la sua straordinaria esistenza, papà ha sempre utilizzato la cucina per nutrire chi aveva accanto, la famiglia, gli amici di sempre, i colleghi vecchi e nuovi, per se durre i produttori, le mogli, le amanti, in un unico gesto d’amore, un rituale autentico che diventava espressione della sua accoglienza e del suo desiderio di convivialità, il suo teatro. Il cinema gli aveva dato tanto: successo, soldi, popolarità, ma gli mancava l’applauso a scena aperta, l’emozione di esibirsi dal vivo. Sopportava le critiche più feroci all’ultimo film, ma era del tutto intollerante ai giudizi negativi sulla sua ribollita, anche perché era finalmente riuscito a coltivare il cavolo nero nel suo orto. Ugo, infatti, era un papà a chilometro zero, che coltivava le sue meraviglie nell’orto di Velletri. Vino, olio, uova, galline, oche, papere, Gigetto il maiale, frutta e verdura, tutto mantenuto con l’acqua di un pozzo. (…) Lo chiamavamo “il matriarca”: “Non potendo allattare i miei figli, io cucino per loro” diceva, fiero. Così la cucina era un modo per diventare proprio quel cibo che gli altri avrebbero dovuto mangiare: Ugo insieme al cibo donava se stesso, in un rito quasi religioso. Quando a Velletri, durante i fine settimana, noi figli scendevamo assonnati e affamati in tarda mattinata, lui era già sveglio dall’alba e alle undici aveva già divorato i quotidiani, messo a bollire i sughi e a marinare le aringhe per Thomas, il fratello norvegese. E mentre ci faceva la rassegna stampa, distribuiva le cipolle da affettare, i pomodori da passare, il brodo da filtrare. Era un autodidatta con grandi competenze professionali, la sua estrosità era infinita e non poteva che provare a raccoglierla in diversi libri di ricette. Tentando di mantenere quasi un’agenda della sua arte culinaria, ecco che faceva pubblicare i libri, ma non bastavano mai. Il rigettario è il secondo dei suoi quattro volumi di cucina. Il quinto, quello che non è riuscito a finire, era un ambizioso dizionario gastronomico, che includeva un inventario degli utensili e degli attrezzi di cui disponeva a casa e di quelli che disgraziatamente gli manca vano. Tra i primissimi compariva “l’ago in osso di cavallo”, che serviva a testare la stagiona tura del maiale: lo “spillatore” annusava il prosciutto con l’osso della tibia del cavallo. Una procedura da esperti, antichissima, che Ugo non poteva certo disconoscere. Insomma, un uomo che non si è mai accontentato solo di mangiare, ma che ha voluto esplorare l’intero universo della cucina, portando con sé tutto ciò che aveva visto e sperimentato nel mondo: è così che è riuscito a cucinare persino una ventresca di balena o una coscia di ippopotamo, certo in tempi diversi da questi, quando non saresti incorso nelle ire della legge e di chi, con il buonsenso di oggi, ha imposto delle regole per proteggere flora e fauna.
Un’estate a Torvajanica papà portò in tavola il famoso pesce finto, una scultura a forma di pesce, appunto, composta da un impasto di patate, maionese, capperi e – naturalmente – il tonno. Un piatto semplice, delizioso ed economico che papà preparava come antipasto quando gli ospiti erano in esubero. Il piatto era squisito, solo ogni tanto ci si ritrovava tra i denti qualche anomalo ossicino. Incrociai lo sguardo di Ugo, che mi fece cenno di seguirlo in cucina mentre gli ospiti si cibavano beatamente del pesce finto. Si aggirava per la dispensa piena di scatolame dannandosi e dicendo tra sé: “Come ho potuto? Potremmo morire tutti! Avvelenati!”. “Come è possibile?” “Ho usato il cibo per i gatti.” Strabuzzai gli occhi nella speranza di vomitare ciò che avevo appena ingerito. A quel punto minimizzò: “Ricky, i nostri gatti sono sanissimi e grassi. Quindi questo cibo è commestibile anche per noi”. Ma dopo pochi secondi Carmina, la sua straordinaria assistente ciociara, che ci aveva cresciuto, ritirò il pesce finto dalla tavola mentre gli ospiti protestavano: “No, ancora, ancora!”. Ma Ugo disse: “Lo diamo ai gatti!”. Quindi geniale, sperimentale, poliedrico, innovatore. Le sue ricette, dai titoli quasi cinematografici: Il risotto al blu di metilene, Le farfalle fucsia, Le tagliatelle alle nocciole, Il risotto prosciutto e melone, Le costolette alla Mao, La Checca sul rogo, La spigola al cartoccio con funghi porcini e chi più ne ha più ne metta, vengono ancora cucinate dalla famiglia, dai suoi amici ristoratori tra i quali eccelle Benito Morelli, di Benito al Bosco a Velletri e, in occasione dei suoi anniversari, a Cremona gran parte dei ristoranti offre ricette di Tognazzi. Il titolo Il rigettario nasce dalla filosofia del rigetto, come spiega Ugo nella sua prefazione: il rifiuto cioè di tutto ciò che è convenzionale, il suo anticonformismo non solo applicato alle scelte coraggiose nel suo lavoro, ma anche alla sua cucina. (…) Ha scritto questo libro a Quiberon, in una lussuosissima clinica per dimagrire, che non sacrificava al dimagrimento l’esigenza gastronomica: medaglioni di aragosta, gamberi crudi, caviale, ostriche vive. Era partito insieme all’amico di sempre, il regista della Grande abbuffata (1973), Marco Ferreri, perché anche per perdere peso, pur salvando il palato, Ugo aveva bisogno di un complice. E proprio lì è nato il libro più colorato, più gustoso, più succoso e più invitante che si potesse scrivere durante una dieta.