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 2022  novembre 20 Domenica calendario

Biografia di Vinicio Marchioni raccontata da lui stesso

Al momento è nelle sale con il film di Paolo Virzì (Siccità), quello di Michele Placido (L’ombra di Caravaggio), quello di Paolo Costella (Vicini di casa, dal 3 dicembre), e stasera è al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti con lo spettacolo Magic Circles, storia di malattia, inclusione e creatività. Questa chiacchierata con Vinicio Marchioni, però, parte dalla pialla. Quella che usa appena può nel laboratorio di falegnameria di suo suocero, morto poco fa, che si trova alle spalle di San Pietro, a Roma.
Ci sa fare?
«Ci provo. Quella brava è mia moglie (l’attrice Milena Mancini, ndr), che dagli strumenti alle vernici sa realizzare di tutto. Stare lì dentro, a fare e sudare, mi piace. Libero la testa e non penso a registi, pubblico, copioni... Niente. Sto bene, mi semplifico e mi ricarico».
Risultati? Una sedia? Una panca?
«Qualcosa riesco a fare, ma devo imparare ancora tanto. Il mio sogno è un grande tavolo con legno e resine. Per costruirlo, però, ci vuole almeno un mese e io, purtroppo e per fortuna, tutto questo tempo libero non ce l’ho».
Chi è oggi, come si presenta?
«Sono un artista operaio che indaga sul mistero dell’essere umano, cercando di essere me stesso e non fare quello che gli altri si aspettano io faccia».
E in pratica, che vuol dire?
«Scegliere sempre in autonomia».
Faticoso?
«Diciamo che ho faticosamente messo giù delle fondamenta solide. Questa libertà di manovra che ho oggi credo di essermela guadagnata. Il difficile è mantenerla. Se un ruolo non è scritto bene, se il regista non è all’altezza, e se non c’è una produzione decente, lo scivolone è dietro l’angolo».
Come si evita?
«Al cinema e in teatro, per esempio, io ci provo facendo tante opere prime. Mi piacciono l’energia e l’incoscienza dei debuttanti».
Appartiene a una generazione di attori bravissimi, che però non incide più come un tempo sulla società: perché?
«È duro da accettare, ma è così: siamo stati messi da parte un po’ da tutti. Quell’influenza e quell’attenzione che negli Anni Sessanta avevano Gassman, Tognazzi e Sordi, oggi ce l’ha solo uno come Toni Servillo, autorevolissimo. Tutti gli altri hanno dovuto lasciare spazio agli influencer. Che sono un’altra cosa. Noi abbiamo una professionalità, una cultura, una formazione. Loro?».
Spesso, però, i film raccontano storie debolissime.
«È vero. E anche questo è lo specchio dei tempi. Negli anni d’oro c’erano gruppi di autori che avevano il gusto di stare e lavorare insieme, oggi c’è una grande dispersione. Ognuno - sceneggiatore, regista o attore - porta avanti le sue cose in maniera frastagliata e isolata. Non c’è un clima che permetta la nascita di nuovi Flaiano, Pasolini, Age e Scarpelli... E poi, va detto, ci scontriamo anche con i tempi serratissimi imposti dalle produzioni e delle piattaforme. Ci vuole tempo per fare bene. Non so chi lo diceva, ma per un film riuscito ci vogliono tre cose: la sceneggiatura, la sceneggiatura e la sceneggiatura».
Un attore oggi può avere anche un ruolo in qualche modo politico?
«No. Noi dobbiamo conoscere la politica quel tanto per starne lontano. Io le mie posizioni preferisco esprimerle attraverso il mio mestiere, non in piazza o sui social».
Detto questo, il cinema come è stato con lei?
«Generoso. E lo dico meravigliandomi ancora quando mi chiamano, visto che non mi sono ancora liberato dalla sindrome dell’impostore. Ho recitato con Dustin Hoffmann, Adrian Brody, Toni Servillo e ho preso parte a più di quaranta film».
C’era anche nel film più brutto mai girato da Woody Allen: To Rome with Love.
«Esatto. Per 43 secondi ho recitato anche in quel lavoro terribile del grande Woody».
In assoluto il ruolo che le è venuto meglio?
«Aureliano in 20 sigarette di Aureliano Amadei, sulla strage di Nassiriya, nel 2010. E anche Massimo in Ghiaccio di Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis, sul mondo della boxe, quest’anno. Mentalmente e fisicamente è stata una prova pazzesca: poco prima, spostando un mobile in casa, mi ero lussato una spalla... Diciamo che dopo questa prova mi sono sentito un professionista pronto a tutto».
Perché dopo Romanzo criminale non ha più lavorato in una serie?
«Perché finora non ho più trovato un ruolo bello come quello del Freddo. Adesso, però, sono sul set dei Leoni di Sicilia, otto episodi per Disney+ tratti dall’omonimo best seller di Stefania Auci diretti da Paolo Genovese. Storia pazzesca di un’Italia del sud lontana dal solito cliché».
Il personaggio del Freddo un po’ le sta qui o no?
«Gli devo tantissimo e lo ricordo con piacere. Ma adesso per me è come un parente lontano che non c’è più».
Gira voce che lei dica molti no: il più faticoso?
«Non si parla di queste cose...».
Quello di cui si è pentito?
«Un paio di volte la lingua me la sono morsa».
Insisto. Almeno uno.
«
Smetto quando voglio di Sidney Sibilia, ma ero in teatro con Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams».
Prima di compiere cinquant’anni cosa vorrebbe assolutamente fare?
«Il cammino di Santiago de Compostela. E poi vedere l’aurora boreale».
Spesso e volentieri lavora con sua moglie: bello ma complicato?
«Bello. Ci divertiamo e non ci prendiamo troppo sul serio. Questo lavoro è un gioco. Non bisogna dimenticarlo mai».
Che paletti avete fissato?
«Non mischiare lavoro e vita privata. Per ora funziona».
Senta, gli attori, i registi sono tutti...???
«Pazzi. Ingenui. Sempre a fare i conti con quel fanciullino che ci spinge a sognare ma anche a fare cose ciniche per un’inquadratura più bella».
La cosa più interessante che ha messo a fuoco in questi ultimi anni così complicati?
«Se si pensa una cosa, bisogna farla. Si parla troppo a vanvera. Io per primo».
Nel 2018 si è iscritto al corso di laurea in Beni culturali: a che punto è?
«Ecco. Mannaggia a me e a quando ho fatto quel post. Neanche mezzo esame ho dato. Sono una vergogna».
Il ristorante Casa, nel centro di Roma, aperto con suo fratello Massimo, ce l’ha ancora?
«L’abbiamo chiuso. Esperienza finita».
Una cosa che vuole da tempo e che non ha ancora?
«Una casa di proprietà. Sembrerà un pensiero antico, ma sono figlio di quell’Italia lì: se uno non lascia una casa ai figli...».
Sua moglie è autrice e interprete di un monologo, che lei dirige, contro le violenze sulle donne: Sposerò Biagio Antonacci. Il cantautore milanese, che ha collaborato con le sue musiche al progetto, è anche una sua passione o ha accettato per pax familiare?
«Diciamo che non sono cresciuto con le sue canzoni, però Biagio è una bella persona: generosa, schietta e onesta. Se non si è così non si dura trent’anni».
La sua canzone preferita?
«Se io, se lei. E poi un’altra che non mi ricordo... No signora, no».
Cosa non si perdona?
«Il fatto di essere troppo buono».
Andiamo...
«È così. Tutti mi considerano un buono. E lo sono. In Italia, però, finché non fai un po’ lo stronzo non sei considerato seriamente. Ecco, questo è un lato del mio carattere su cui sto lavorando: devo riuscire a dire, ogni tanto, un sano vaffanculo».
Quindi chiudiamo così? Sta lavorando per diventare un po’ stronzo?
«Sì, esatto. Non avrei potuto dirlo meglio».