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 2022  novembre 20 Domenica calendario

Angelo Pellegrino racconta la moglie Goliarda Sapienza

Un amico. Un complice. Un amante. Un marito. Un biografo. Un ostinato “promotore”. L’ultimo testimone.
Sono i sette colori dell’arcobaleno di Goliarda Sapienza e Angelo Pellegrino li racchiude tutti e sette. È stato lui, la sua ostinazione, la sua ossessione a svelare prima a Germania e Francia, e poi all’Italia, la magia de L’arte della gioia, romanzo pubblicato dopo decenni di oblio e rifiuti (“Ora sono uscito pure sul magazine de Le monde con cinque pagine”).
La pubblicazione del romanzo è già un romanzo.
La loro storia d’amore tra cinema, letteratura, galera, povertà e sedute psichiatriche è un romanzo.
La vita di Angelo Pellegrino, prima grecista, poi attore della commedia sexy, infine scrittore, è da romanzo (“È mia la traduzione di Epicuro: la ricerca della felicità ha venduto milioni di copie”).
E centinaia di copie dei libri di Goliarda Sapienza sono sparse nella casa romana di Angelo Pellegrino, compreso il pianerottolo, mentre in salotto “ho i manoscritti originali”.
Le sue compagne sono state gelose di Goliarda?
Molto e me lo dicevano; dopo il 1996, anno della sua morte, ho cercato di celare il mio attaccamento a Goliarda, ho cercato di continuare la mia vita, non volevo cadere nella sindrome di Rebecca la prima moglie. Non ci sono riuscito: è troppa la potenza, la sua grandezza. E in tutti i sensi.
In tutti i sensi, cosa intende?
È stata un’artista vera, dotata di artisticità: in lei era una dote naturale.
A volte può risultare una condanna.
Un contrappasso si è obbligati a pagarlo.
Mentre lei è conosciuto come caratterista della commedia all’italiana.
Quasi tutti film trash: mi servivano per una questione di sopravvivenza economica; (sorride) ci ho scritto un libro, Memorie di un falso attore; (ci pensa) ma parliamo di me o di Goliarda?
Entrambi.
Ah, così soddisfa il mio narcisismo; comunque nasco come appassionato di archeologia, tanto che a 18 anni sono partito per la Grecia, poi sono diventato insegnante, mi sono licenziato, quindi attore e ora sono colui che ha salvato l’opera di Goliarda.
Come mai licenziato?
Avevo 26 anni in pieno ’68: desideravo stare dentro i cambiamenti, dentro la rivoluzione, dentro la liberazione dell’arte e dei sentimenti; (sorride) Brancati sosteneva: “In certe fasi della storia non bisognerebbe mai avere vent’anni”.
I suoi genitori contenti…
Mio padre era un uomo molto ironico, nonostante i panni del bancario: di banca non sapeva nulla, nulla dei vari processi interni, anzi detestava pure gli assegni; amava il Lotto, credeva nella dea Fortuna, l’unica dea a meritare la sua venerazione.
Ha vinto?
Mai. Di notte andava in una zona di Palermo famosa perché lì sono state decapitate le persone condannate a morte, i corpi decollati, e sperava che gli spiriti gli suggerissero qualche numero.
Insomma, il posto fisso.
I miei mi presero per pazzo; (pausa) passo indietro: ero diventato insegnante per evitare il servizio militare, grazie alla “legge Pedini” per i Paesi in via di sviluppo: andavi in Africa invece della naja. Così sono partito per la Somalia: due anni con in mezzo diversi colpi di stato e un colera mostruoso. Tornato in Italia ho vinto il concorso, ma sono finito a Gaeta, ogni mattina mi alzavo alle cinque; da Roma impiegavo tre ore per stare lì. Uno strazio. E ho detto addio.
Soluzione?
Roma in quel periodo era strabiliante, un concerto di cantine dove si mettevano in scena, si costruivano spettacoli teatrali. E alcuni amici mi hanno coinvolto; (sorride) così inizio a frequentare l’ufficio di un agente dello spettacolo e divento amico della segretaria. Una ragazza particolare. Colta, curiosa, sensibile. Stavamo ore a discutere di letteratura. Un pomeriggio mi dice: “Vuoi conoscere una scrittrice? Tutti i pomeriggi vado da lei e l’ascolto mentre legge i suoi scritti”.
Goliarda Sapienza.
Proprio lei.
Ma con il cinema aveva iniziato?
Sì, il primo film è stato 4 marmittoni alle grandi manovre: situazione terrificante, con il regista, Mario Girolami, ex pugile suonato, inseguito da qualche problema; (cambia tono) non ho mai visto un film in cui ho recitato.
Neanche uno?
Qualcosa da quando Berlusconi ha iniziato a mandarli a ripetizione sulle sue tv e da quando c’è Internet; ora, per via di Tarantino, 4 marmittoni è studiato pure all’Università di Cleveland; una monnezza spaventosa.
Almeno si sarà divertito.
Si guadagnava bene, con un film andavo avanti qualche mese. E per fortuna nessuno sapeva dei miei studi da grecista.
Perché?
Non avrei più lavorato.
Come in Smetto quando voglio.
Qualche attore o qualche regista si sarebbe imbarazzato: alcuni erano degli animali.
Ha girato un Fantozzi.
Paolo Villaggio era un’anomalia: uomo colto, un piacere starlo ad ascoltare.
Torniamo all’incontro con Goliarda.
Amava molto i comici e venni presentato proprio come attore comico.
Era d’accordo con i suoi ruoli trash?
Era l’unica nostra fonte di sostentamento e dal 1973 passammo anni difficilissimi; (cambia tono) Goliarda era una mente straordinaria, possedeva una bagaglio di vita che ribaltava la storia d’Italia: con lei avevi un’angolazione inedita.
Cioè?
I genitori le aveva donato strumenti culturali alternativi, illuministici, laici e lei, sempre, li rivendicava, contestava, mandava in crisi i professori; fu espulsa perché in epoca fascista, durante una lezione di storia romana, affermò davanti alla classe che i Romani erano peggiori dei fascisti in quanto avevano crocifisso Spartaco e i suoi compagni. La suora della scuola la indicava come “Satana”.
Era pure una brava attrice?
Bravissima. Silvio D’Amico l’aveva indicata come la nuova Eleonora Duse, poi ci fu la storia con Citto Maselli; (si alza) vado a prendere l’acqua. (E apre una porta quasi segreta, mimetizzata dentro una libreria). Goliarda amava molto queta porta, sosteneva che era perfetta per scappare dagli agenti della Gestapo. (Torna) Dicevamo?
Citto Maselli.
Goliarda mi raccontava del Partito Comunista di allora, della preoccupazione di non urtare l’elettorato cattolico, quindi non si poteva parlare di separazione né di divorzio, allora c’era molto moralismo. Così Citto Maselli le chiese: “Posso dire che sei stata tu a lasciarmi?”. “Va bene”. Da quel giorno nessun quotidiano o rivista legata al Pci si è più occupato di lei. E anche con il cinema…
Avevate 22 anni di differenza.
Anche per questo siamo stati esclusi da molte persone; (pausa) e tutto è peggiorato quando nel 1979 ci siamo sposati.
In quegli anni è finita in carcere, definita da lei stessa “l’università di Rebibbia”.
Per un furto di gioielli in casa di una nobildonna che all’epoca frequentavamo, addirittura una dei due testimoni di nozze; (pausa) era stata una necessità, in quegli anni era finita in una forte stagnazione emotiva, anche economicamente eravamo a terra, avevamo venduto tutto e rischiavamo lo sfratto; (cambia tono) tra il furto e il carcere passano due anni e in quel lasso di tempo Goliarda ha lasciato una serie di tracce fino a quando le forze dell’ordine hanno bussato alla nostra porta. È come se l’avesse cercato.
Sua moglie in carcere.
Un soggiorno felice, si sentì più accettata dai compagni di reclusione che dagli intellettuali dell’epoca. Comunque ci rimase un pugno di giorni.
Era preoccupato?
Di Goliarda? No, la conoscevo bene, era una donna che aveva affrontato la Resistenza, che era sfuggita ai fascisti e alle SS. Che aveva preso una pistola e ucciso.
Ne parlava?
Pochissimo; ai tempi molti si pavoneggiavano di aver partecipato alla Resistenza, e non era vero, mentre lei taceva.
Temeva per la sua vita? Si racconta di un tentativo di suicidio.
È un equivoco. E va risolto. Tutto parte dal 1956 e dall’VIII Congresso del Pci: lei faceva parte di quel mondo di sinistra che entra in crisi per i fatti di Ungheria, per Stalin e per l’atteggiamento dei comunisti italiani. Poco dopo finisce il rapporto con Maselli, si interrompe l’impegno con il cinema nonostante Visconti le abbia chiesto di recitare in due film (si alza di nuovo, stacca una foto da una parete). Guardi la dedica di Visconti: “Cara Goliarda, sei una delle poche persone che stimo”.
Quindi…
Altra premessa: non era genio e sregolatezza, si definiva una donna “preindustriale”, ma nel 1972, complice l’accumulo di malessere, inizia a non dormire più e si affida ai barbiturici; (abbassa la voce) una sera ha esagerato ed è andata in coma. Ma non è stato un suicidio.
È finita in clinica.
La clinica di un amico di Maselli dove l’hanno sottoposta a degli elettrochoc talmente duri da azzerarle la seconda memoria; (pausa) l’ha salvata Ignazio Majore, psichiatra non convenzionale, in grado di farle recuperare parte della memoria.
Oggi che Goliarda Sapienza è riconosciuta come grande scrittrice, in lei vive più la gioia o il fastidio?
Sono fiero di aver salvato il suo nome, ma non nego di provare un po’ di incazzatura; (pausa) dopo la sua morte mi sono trovato solo, con i suoi manoscritti chiusi nella panca, aggrediti dai vermi. E io alle prese con i dubbi: mi domandavo se fossi folle nel cogliere la sua grandezza, o se i folli fossero gli altri che la negavano. Allora ho stampato mille copie de L’arte della gioia.
Quindi non si sente defraudato.
No, perché sono stato impegnato a costruire il personaggio e questo processo è stato lentissimo e solo io ne posseggo le chiavi.
C’è un momento in cui ha capito di avercela fatta?
Forse quando nel centro di Parigi, sugli Champs-Élysées, ho visto una libreria dedicata a Goliarda.
Perché la sua fama è partita prima dall’estero?
Grazie a un’agente bresciana che si è innamorata del romanzo e lo ha portato al Salone di Francoforte: lì si è imbattuta in un editore tedesco che dopo averlo letto ne è rimasto folgorato e oltre a pubblicarlo lo ha consigliato a una collega francese, già editrice di Fred Vargas; (sorride) dopo la pubblicazione, il successo all’estero e un articolo di Fabio Gambaro su Repubblica, una mattina, fuori dalla porta di casa, ho trovato la fila degli editori italiani con il cappello in mano.
Lì sorrideva.
In parte e in parte mi veniva da piangere. E ho pensato alla felicità di Goliarda mentre scriveva questo libro: L’arte della gioia è l’arte di averla realizzata e ora nessuno saprà mai chi è stata veramente. Lo potrà scoprire solo attraverso me e la sua opera.