il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2022
I Savoia vogliono indietro i gioielli “per usucapione”
“I gioielli sono nostri. E se pure non lo fossero stati in precedenza, ormai ne abbiamo acquisito la proprietà”. Tecnicamente si chiama “usucapione” ed è “la modalità di acquisto di un bene che si compie mediante il possesso continuo, pacifico, ininterrotto e manifesto”. Un istituto giuridico antico, risalente al diritto romano, ora utilizzato dagli eredi di Casa Savoia per mettere a punto la sua strategia difensiva nell’ultimo contenzioso civile in corso con lo Stato italiano. Una causa avviata lo scorso anno nel tentativo, da parte dei discendenti del casato piemontese, di riappropriarsi dei gioielli della Corona, per il valore di 300 milioni di euro, depositati in un caveau della Banca d’Italia da un funzionario della Real Casa il 5 giugno 1946. Il pezzo forte del deposito è la famosa tiara della regina Margherita e della regina Elena, un grande diadema a 11 volute di brillanti, attraversato da un filo di perle orientali, per un totale di 11 perle a goccia di grani 720, 64 perle tonde del peso di grani 975, 1.040 brillanti del peso di grani 1.167.
L’ultima puntata della telenovela sulla diatriba Stato-Savoia emerge dalle sette memorie – 3 firmate dal legale dei Savoia, l’avvocato Sergio Orlandi; 2 dall’Avvocatura generale dello Stato e altre 2 dai legali di Bankitalia – di cui Il Fatto è entrato in possesso. Il contenzioso ha origine dall’istanza presentata a novembre 2021 dai fratelli Vittorio Emanuele, Maria Beatrice, Maria Pia e Maria Gabriella di Savoia, figli di Umberto II, l’ultimo re d’Italia fuggito in Portogallo il 6 giugno 1946 all’indomani dell’ufficializzazione dei risultati del referendum che segnò il passaggio dalla monarchia alla Repubblica.
I Savoia, nelle loro memorie, sostengono che “il Re Umberto II e la Banca d’Italia – si legge – il 5 giugno 1946 hanno stipulato un contratto di deposito, affinché la Banca custodisse i gioielli per suo conto e li consegnasse a chi di diritto (…). In tutti questi anni la Banca d’Italia ha continuato a detenere i gioielli per conto del legittimo possessore e proprietario ex Re d’Italia, senza che nessuno ne vantasse la proprietà”. Secondo l’avvocato Orlandi, poi, “il Re Umberto II di certo ne ha anche acquisito la proprietà, nonostante fosse già proprietario, avendo continuato il possesso dei gioielli, tramite il deposito presso la Banca d’Italia, per 37 anni (…)” fino “alla sua morte avvenuta nel 1983”.
Il documento chiave su cui puntano i legali di Casa Savoia riguarda quattro pagine – dalla 656 alla 659 – dei diari di Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia dell’epoca, che di lì a poco sarebbe diventato il primo presidente della Repubblica italiana. “Il Re mi riceve come al solito – si legge – e forse un po’ più serio, e mi comunica che in conseguenza degli avvenimenti egli desidera che le gioie così dette della corona non vadano immediatamente in mano ad un commissario (…) Egli desidera che esse siano depositate presso la Banca d’Italia per essere consegnate poi a chi di diritto”. E ancora: “Del resto la formula usata di consegna ‘a chi di diritto’ salva le eventuali ragioni del Re, il quale d’altronde mi aveva lasciato intendere che egli doveva anche tener conto dei figli e dei loro eventuali diritti patrimoniali, non potendosi sapere quale sorte ad essi riservava l’avvenire”. Tradotto: i gioielli nella disposizione del Re, furono depositati con l’intenzione di preservare l’eredità dei figli, che un giorno ne sarebbero rientrati in possesso. Quante possibilità ci sono che possa essere riconosciuta l’usucapione?
Le date sono importanti. Il 2 giugno 1946 si tiene il referendum. Il 5 giugno, Re Umberto II parla con Einaudi e – secondo la ricostruzione dei Savoia – delega l’avvocato Falcone Lucifero (all’epoca Reggente del ministero della Real Casa) al deposito dei gioielli. Il 6 giugno vengono resi noti i risultati del referendum e il Re parte con la sua famiglia verso il Portogallo. Il 10 giugno ci sarà la proclamazione ufficiale. Il 1 gennaio 1948, un anno e mezzo più tardi, entrerà in vigore la Costituzione italiana e con essa la XIII Disposizione che, oltre ai primi due commi sull’esilio cancellati nel 2002, dispone l’avocazione allo Stato dei beni appartenenti al patrimonio personale di Umberto II. Secondo i Savoia, quindi, all’atto del deposito era ancora in vigore lo Statuto Albertino, la Repubblica non era stata proclamata e non era così scontato che i Reali dovessero abbandonare il suolo italiano.
Il problema è che la XIII Disposizione sancisce anche che “i trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli”. Nella sua memoria, depositata agli atti, Bankitalia definisce la tesi dell’usucapione “peregrina” e argomenta: “L’atto di deposito dei gioielli della Corona (…) non promana da Umberto II in qualità di privato, ma da un rappresentante dello Stato nella sua qualità (l’avvocato Lucifero, ndr) (…)” e “non esprime la volontà di Umberto II di iniziare a possedere i gioielli uti dominus (dal latino, ‘come se ne fosse il proprietario’, ndr)”.
La decisione
sul contenzioso non arriverà a breve. Dopo il rinvio del 20 luglio scorso, il Tribunale di Roma ha convocato per il 10 maggio 2023 l’udienza per decidere si accogliere o meno la richiesta dei Savoia di presentare ricorso davanti alla Corte Costituzionale sulla validità della XIII Disposizione. Il terzo comma – l’unico rimasto in vigore – è ritenuto dai legali in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione italiana e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Qualora il tribunale accogliesse l’istanza, poi dovrebbe pronunciarsi la Consulta e, in caso di esito negativo, bisognerebbe affrontare il probabile ricorso alla Cedu. Non solo. La questione si perde agli albori della Repubblica. L’Avvocatura dello Stato, infatti, nella sua memoria, ricorda come l’avocazione dei beni sia “risultata misura del tutto coerente e proporzionata rispetto alla gravità degli eventi, riconducibili alla responsabilità diretta della famiglia regnante connessa all’ascesa della dittatura fascista”. Un nervo scoperto per i Savoia, secondo cui “lo Stato Italiano non ha rispettato un principio cardine del nostro ordinamento giuridico, in quanto ha inteso condannare ed applicare sanzioni alla famiglia Savoia senza un equo e giusto processo”. Una questione gigantesca, annosa, che difficilmente un giudice civile potrà dirimere.