Corriere della Sera, 20 novembre 2022
Giorgio Armani: «Io brucio nel ghiaccio»
Il re è nudo. Ma lui lo sa. Ha voluto spogliarsi agli occhi di quel mondo che di solito veste per raccontarsi, almeno una volta nella vita, per come realmente è. Perché ora? «Per amore». Che è anche il titolo, spiazzante, di questo libro firmato Giorgio Armani. «Chiunque prenda in mano questo volume, sono certo – già sa, lo “scrittore” – resterà sorpreso dal titolo, così morbido, oserei dire romantico, sentimentale. Così poco armaniano, in fondo». Una disamina che è consapevolezza di un sé che non si è mai perso: «Ho un’età sufficiente per non dover spiegare il mio modo di porgermi e comunque non l’ho mai fatto perché ciascuno è come è». E rubando la definizione al pittore Vasilij Kandinskij, Giorgio Armani materializza il suo modo di essere in una frase: «Sono come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma».
Il libro uscirà dopodomani, edito da Rizzoli. Un’autobiografia nata dalla costola di un coffee-table book per i 40 anni del marchio, dove le immagini, necessariamente, nascondevano il racconto, ma non per molto. Giusto dar loro spazio in un libro che, senza bisogno di infiocchettature, ha la stessa forza di un romanzo e che dagli anni del fascismo arriva sino ai giorni della pandemia. Ci sono scorci sociali, politici, umani così come lo stilista li ha vissuti. Non c’è un ordine temporale. Volendo il lettore può scegliere i capitoli dalle parole che li separano: Io, Fare moda, Parlare chiaro o Incontrare le star. Ma la sensazione non cambia: l’impressione è quella di avere fra le mani un romanzo che è come una lunghissima lettera d’amore («di espressione, di visione, di gusto e di stile») dedicata a chi con l’uomo e lo stilista ha percorso la stessa strada: la famiglia, gli amici, le donne e gli uomini.
L’incipit è pulito, la data di nascita: «Sono nato l’11 luglio del 1934, a Piacenza, una città di duemila anni e più, sulle rive del Po». Poi l’infanzia, l’arrivo a Milano, il servizio militare, la scelta di medicina e gli anni in Rinascente. I (primi) incontri fondamentali: con Nino Cerruti, una donna misteriosa e il socio Sergio Galeotti. La nascita del marchio e in pochissimo tempo il successo, la copertina di «Time» e un impero. Sino all’oggi e (a sorpresa) al dopo. Sullo sfondo la moda, naturalmente, ma per l’autore resta «un racconto di vita». «Questa è la mia storia, questi sono i miei valori», comincia ad annotare nella prefazione. E no, questo «non è un manuale, e non l’ho immaginato come tale, ma mi piacerebbe che da un documento tanto singolare nascesse in chi lo sfoglia una scintilla... per trovare una direzione nella vita e seguire la passione», chiude il finale.
Al centro, quel lavoro inaspettato per chi conosce Armani, un uomo che della riservatezza ha fatto uno dei punti di forza. «Sono concentrato e controllato, ma dietro c’è un’indole sanguigna e sensibile. Ho solo imparato a proteggermi, altrimenti il mondo avrebbe potuto approfittarne. Sono schivo e riservato. Alle feste e agli eventi mondani ho sempre preferito il mio studio, dove ancora oggi sono il primo ad arrivare e l’ultimo ad andar via», scrive. «Penso anche che il mio cinismo nei confronti della vita sia una sorta di difesa». Ma proprio tenendo nell’animo la considerazione di cui sopra, ci si rende conto, una riga dopo l’altra, che l’uomo e lo stilista non si tradiscono e a vincere è quella coerenza che ne ha fatto una delle persone più amate e ammirate al mondo: mai e poi mai oltrepassa la soglia che potrebbe sconfinare oltre, arrivando alla morbosità. Con leggerezza e sensibilità, e rispetto per sé e per gli altri, qui Armani riesce a raccontarsi quasi tutto, lasciando comunque qua e là angoli giustamente nascosti. E non si toglie neppure sassolini scomodi. Non ne ha bisogno. Non fa per esempio i nomi di quel politico italiano e di quell’importante imprenditore francese che non lo aiutarono nel 1998 a risolvere una situazione delicatissima, con 1.200 persone bloccate fuori dallo show in boulevard Saint Germain a Parigi. Forse la più grande delusione subita.
Armani vola alto. Racconta, ringrazia ed elogia. Ci sono fermezze e tenerezze, dolori e gioie. Per la prima volta parla dei giorni di sofferenza e disperazione accanto all’uomo con il quale cominciò tutto, Sergio Galeotti, e che si ammalò e se ne andò all’improvviso nel 1985, alla vigilia di un Ferragosto maledetto. O del rapporto con i suoi nipoti («non sono mai stato lo zione con cui giocare, ma ne sono diventato il padre»), elogiandoli a uno a uno: Silvana e Roberta Armani e Andrea Camerana, figlio della sorella Rosanna, una donna fra le più importanti nella vita di Giorgio Armani. Ci sono le sue meravigliose case, i luoghi del cuore, che lui vive per davvero, non inutili rappresentanze: da Pantelleria a Broni nel Pavese, dall’Engadina ad Antigua e a Forte dei Marmi e poi Milano, via Borgognone. La sua passione per lo sport. «Non ho mai fatto uso di droghe, non sono mai nemmeno caduto nella trappola del fumo. Eppure sono umano, non un monaco zen. Non ho mai cercato il piacere artificiale. L’adrenalina del lavoro per me è meglio di ogni allucinazione e stordimento procurato. È un vero orgasmo, se mi si passa il termine, un po’ forte ma efficace».
Una lezione di pudore e privacy a una società che dello show off ha fatto un credo cui Armani non si è mai convertito. «La fama l’ho sempre accettata come un obbligo, come la conseguenza di un grande impegno... Sono sempre stato troppo pragmatico per perseguirla come un gingillo o esibirla come un gioiello sfavillante». Non si tira indietro però in nessuna delle risposte che contano, persino a quella domanda che tutti non osano mai fargli, ma che lui intuisce. «Anche io un giorno dovrò cedere il comando e concludere il mio percorso di stilista: non avverrà nell’immediato, ma ci penso da tempo, perché voglio che il frutto di tanta fatica, questa azienda alla quale ho dato tutta la mia vita e tutte le mie energie, vada avanti, a lungo, anche senza di me. Il piano di successione l’ho preparato con il mio usuale programmatico pragmatismo e la mia grande discrezione, ma non lo rivelo adesso, perché ci sono ancora». Ma è in Per amore che nomina ufficialmente i «suoi fidi luogotenenti»: Silvana e Leo. L’amata nipote e il suo «braccio destro»: «In realtà si chiama Pantaleo (Dell’Orco ndr)... è la persona cui ho affidato i miei pensieri più privati, personali, di lavoro e non, che ha saputo tenere per sé con grande riserbo. Grazie Leo!».
Il qui e ora, perché la pandemia ha suonato per lui come una sveglia, un campanello di allarme: «Nessuno si è potuto sottrarre. Ho molto riflettuto e ho agito prontamente, ritrovandomi vicino alla gente come non mai. Questa vicinanza mi ha indotto a ripensare il libro, ad arricchirlo, facendo un documento molto personale: di impegno, dedizione, visione». Eccolo, lo scopo. Lasciare il segno. Non è forse questo il karma che il destino ha voluto per Giorgio Armani? Più che assegnato, trovato: «Del sacro fuoco della moda, quello di cui si parla quando si motivano le scelte di un creativo del settore – dice sorridendo sui racconti di altri colleghi – nessuna traccia. So che quanto sto dichiarando può provocare una specie di delusione in chi si aspetterebbe il contrario, ma voglio essere sincero. All’epoca non c’era alcun tipo di legame con la moda stessa e tantomeno avevo mai respirato l’aria di un atelier».
Fu grazie a donne speciali come sua mamma Maria o sua sorella Rosanna («lei è aliena a ogni banalità»), ma anche amiche per caso, che Armani capì il suo destino: «Fu l’ennesimo incontro con una donna (che resta anonima, ndr) a farmi scegliere un’altra strada professionale (sino a quel momento era solo un compratore, ndr), quella che sarebbe stata la mia. L’ho incrociata in corridoio, da lontano ne sentivo il profumo: intenso, indimenticabile, ondeggiava con la sua pelliccia di visone selvaggio… era la bellezza per eccellenza, ma anche molto discussa». Le osservava, le donne, eccome. A tal punto da decidere di volerle aiutare. Loro e gli uomini: «Il mio scopo nella moda era quello di rendere meno severa e rigida la figura maschile e meno manierata quella femminile, mantenendo però il tono elegante, la distinzione, quel farsi notare dalla testa e dalla stima di sé».
Il cinema come contenitore di ispirazione, ma anche le culture, le storie. «Sull’osservazione del reale io, invece, ho costruito il mio impero. Fin da subito ho rifiutato la figura, fuori del tempo, dello stilista chiuso nella sua torre d’avorio a pensare abiti stupendi per donne privilegiate». Dietro l’angolo, sempre il confronto, fondamentale. Per correggersi ed evolvere. «Crescere non vuole dire altro che adattare il mondo perfetto delle idee a quello imperfetto della realtà. Ci vuole una vita per farlo, ma alla fine ci si riesce». E la parola fine? «Questo lavoro è per me la vita, è un atto continuo di amore e trasmetterlo al mio pubblico in forma così intima e diretta, pure. E qui per davvero metto il punto. Per ora».