Corriere della Sera, 20 novembre 2022
I guai di Aboubakar Soumahoro
Dice che «nei campi dell’Agro Pontino» andava a fare «l’alfabetizzazione dei braccianti», altro che imbrogli di famiglia. E ogni tanto gli scappa di parlare di sé in terza persona, come Giulio Cesare o Berlusconi: «Aboubakar non è lì per Aboubakar, ma per volontà popolare».
Chissà se, nella laboriosa edificazione del suo ego, in certe notti di stanchezza gli ricompare davanti Soumaila Sacko, come il fantasma di Banco. In fondo proprio la morte di Soumaila, ammazzato a fucilate nelle campagne il 2 giugno 2018 da un malacarne calabrese per due tavole di legno, proietta lui, Aboubakar Soumahoro, a nuova vita. E che vita: da voce della vittima, prima, a voce di tutte le vittime dell’ingiustizia planetaria, poi; dai talk show ai salotti tv, adulato sulle copertine (lui di qua, Salvini di là, titolo «Uomini e no») fino a un seggio parlamentare celebrato presentandosi a Montecitorio con gli stivali sporchi dei campi e il pugno chiuso, «piedi nel fango della realtà e spirito nel cielo della speranza», alla faccia della retorica. Per una sinistra dal cuore di simboli affamato, uno così è quasi meglio di Mimmo Lucano.
Adesso che il mondo ingrato gli si rivolta contro e la Procura di Latina indaga su cooperative dove appaiono la moglie Liliane e la suocera Marie Terese tra storiacce di pagamenti mancati ai cooperanti e condizioni indecenti nei centri d’accoglienza dei profughi, c’è chi, come i ragazzi del Collettivo Jacob Foggia, vecchi compagni d’un tempo, lo accusa di avere «surfato» sulle disgrazie altrui, «lo sterminato esercito bracciantile di migliaia di migranti», proprio cominciando da quella campagna insanguinata dove cronisti e telecamere lo adottarono, colto e facondo, nero come Soumaila e pronto a parlarne come fosse suo fratello.
«Io ero in Calabria da prima del 2018, è ventidue anni che sto in strada, ho dormito in strada a Napoli, se non sei pulito per strada non cammini. Chi parla oggi dov’era?», replica lui, garbato ma stizzito. La grana politica è esplosa, i giornali scrivono di «cooperative di famiglia». «Sa, sono molto preoccupato. Non sottovaluto questi attacchi mediatici. Ma, a chi vuole seppellirmi politicamente, dico: mettetevi l’anima in pace, il fango mediatico non ci fermerà». Spiega di essere per «un sovranismo internazionale solidale» ma non provate a chiedergli lumi, perché Soumahoro forse non surferà sugli esseri umani ma, come tutti i veri politici, surfa sulle domande e continua nel suo copione come fosse sordo: «Non appartengo alla politica liquida», dice, «ho un’identità: sono la voce di 600 mila italiani che non riescono a curarsi. Non tentate di zittirmi!». In realtà non è da escludere che qualcuno tenti piuttosto di farlo parlare.
È lunga e ripida l’arrampicata di Aboubakar: dalla natia Costa d’Avorio alla Napoli dove riesce a laurearsi alla grande (110 in sociologia), dall’Unione Sindacale di Base al mito di Di Vittorio, sino a un sindacato a sua misura, la Lega Braccianti, e a un divorzio non proprio amichevole con l’Usb. Prima grana, una raccolta fondi al tempo del lockdown di cui non è chiarissima, secondo alcuni, la destinazione: «Macché», replica lui, «a Foggia c’è il bilancio della Lega Braccianti, è tutto online, il resto è fango. Io ho portato cibo e mascherine in giro per l’Italia, con mia moglie a sostenermi, ho lasciato un neonato a casa per accudire i bisognosi».
Il cammino
È 22 anni che sto in strada, ho dormito in strada a Napoli Chi parla oggi dov’era?
Dall’immedesimazione con Di Vittorio in poi, il nostro ha sviluppato una declinazione della lotta di classe modernamente trasversale: «Sono antifascista e patriota. Se “loro” hanno perso la connessione sentimentale col popolo se la prendano con sé stessi. Io ho idee diverse da Meloni e Salvini, ma darò una casa politica a partite Iva, Pmi, artigiani e operai. Sono il mio mondo, quello che incrocio alle sei di mattina quando vado in autobus in Parlamento», tuona, lasciandoci a interrogarci su chi diavolo trovi in Parlamento a quell’ora.
Infine, il suo magmatico universo s’incrocia a Latina con uno gnommero locale di cui tutti conoscono il groviglio. Dopo anni di omertà, arrivano le denunce del sindacato Uiltucs e un’ispezione parlamentare del 2019 riemersa dagli archivi, e viene al pettine la storia della cooperativa Karibu e del consorzio Aid: di fatto in mano a mamma Maria Terese Mukamitsindo, profuga ruandese arrivata trent’anni fa, e alla figlia Liliane Murekatete, che segue la madre coi fratelli poco dopo. In piena emergenza migratoria, a metà degli anni Dieci, la Karibu si allarga fino a una trentina di centri d’accoglienza nel basso Lazio, tra Sezze e l’Agro Pontino. Non si sta a guardar tanto per il sottile. «A quei tempi la Prefettura ci diceva: qualunque posto troviate, infilateci i migranti», racconta Carlo Miccio, che ha lavorato nel centro sull’Appia e ne ha tratto persino un romanzo (Copula Mundi): «Ho retto quattro mesi, poi mi hanno allontanato, ma ho visto di tutto: la pioggia nelle camerate affollatissime, i rifiuti non rimossi, il caos. Sono entrato con 48 migranti, erano arrivati a 100, ragazze della tratta e ragazzi dei barconi mischiati. Mesi di stipendio arretrati». I migranti rendono, come si diceva ai tempi del Mondo di Mezzo. «Se vuoi mettere su un impero, continui a prendere ragazzi, anche se la struttura non li regge».
Uno di quei ragazzi ha animato nel 2017 la protesta di Borgo Sabotino. È un trentenne grande e grosso, venuto dal Mali, si chiama Mahmadou Ba: «Faceva un freddo bestia, il cibo era da buttare, tanti di noi uscivano per lavorare in nero». Mahmadou sostiene di essere stato molto legato a Liliane e di avere provato grande ammirazione per Soumahoro, conosciuto in piazza a Latina l’estate del 2018: «Condividevamo gli ideali». Poi qualcosa si rompe, si finisce a diffide dai carabinieri. In questa storia è difficile scindere il pubblico dal privato: e l’incrocio privato tra le vite di Liliane e Aboubakar Soumahoro è proprio di quell’estate. Miccio ammette: «È vero, lui arriva dopo. Ma madre e figlia gli hanno nascosto tutto? Poteva non sapere? E, se sai ‘sta cosa, poi ti metti gli stivaloni in Parlamento?». La lista di guai può essere lunga. Gianfranco Cartisano della Uiltucs parla di «arretrati coi lavoratori per 400 mila euro e fino a 22 mensilità non pagate». Possibile che in casa l’argomento fosse tabù?
Soumahoro è prudente: «Non voglio eludere le domande, ma non avendo vissuto nulla di questa vicenda finirei per fare un’informazione approssimativa con un’indagine della Procura in corso». È protettivo verso il suo amore: «Mia moglie è attualmente disoccupata. Non ha nessuna cooperativa. E quando l’ho conosciuta già lavorava nel mondo dell’accoglienza. Quando vorranno sentirla, fornirà tutti i chiarimenti».
Il rappresentante
Sono la voce di 600 mila italiani che non riescono a curarsi. Non tentate di zittirmi!
Ma la questione più grave non è penale. I referenti della memorabile ascesa sono sconcertati. Uno di loro, un parlamentare che chiede anonimato, sbotta: «Cado dalle nuvole e sono incavolato come una bestia!». Non poteva non sapere è un teorema giudiziario controverso. «E infatti non piace neanche a me», dice il sociologo Marco Omizzolo, animatore di mille battaglie per i diritti dei braccianti nel Pontino: «Però la faccenda è politica. Non si può credere a uno stato diffuso di ingenuità. E a Latina tutti sapevano».