Il Messaggero, 19 novembre 2022
In Kenya niente pioggia da 3 anni
Il Kenya è un grande cimitero di animali morti di sete e di fame, a causa di una siccità senza precedenti che dura da tre anni. La savana dove pascolavano elefanti, gnu, zebre e giraffe è macchiata dai loro scheletri, ammucchiati intorno a quelle che erano state le ultime pozze d’acqua. Nessuno crederebbe che la situazione sia tanto grave se il fotografo Charlie Hamilton James non l’avesse documentata, con immagini terribili e crudeli, visitando i parchi nazionali di Amboseli e Tsvao. Una volta i turisti ci andavano per fotografare gli animali vivi nell’ambiente che per millenni era stato il loro confortevole habitat.
Ora la terra è riarsa e polverosa. Non c’è più acqua da bere, ma soprattutto non cresce più nessun vegetale e manca dunque anche il cibo. Gli animali erbivori muoiono per primi, seguiti da quelli che prima mangiavano la loro carne.
PROLIFERAZIONE SELVAGGIA
La colpa è dell’uomo, come sempre. I mutamenti climatici c’entrano solo in parte: la siccità negli ultimi mesi ha colpito duramente tutto il Corno d’Africa, ma in Kenya la situazione è stata resa ancora più grave dal proliferare degli animali da allevamento. Buoi e mucche hanno divorato tutta l’erba che ancora era riuscita a crescere nonostante le scarse precipitazioni e non hanno lasciato nulla ai bufali, alle gazzelle e agli altri ruminanti selvatici. Si stima che solo quest’anno siano morti 2,5 milioni di capi di bestiame e i loro scheletri sono abbandonati uno sull’altro nella savana riarsa.
Hamilton James, un fotografo naturalista che ha lavorato con il leggendario David Attenborough, ha documentato la strage per la National Geographic Society britannica e ha raccontato al Daily Mail quello che ha visto: «C’è una massiccia siccità, gli animali avevano appena abbastanza acqua da bere, ma ora non c’è niente da mangiare. Sono tre anni che va avanti così. Il terreno è disseminato di corpi, ogni 25 metri c’è un’altra carcassa».
I Masai che prima avevano mandrie di centinaia di bovini ora hanno poche decine di capi. I maschi adulti devono mantenere famiglie quasi sempre molto numerose e non sanno più come fare. Gli agricoltori vendono la loro ormai inutile terra, ma i soldi incassati finiranno presto. I Masai hanno raccontato che fino a poco tempo fa si occupavano anche della fauna selvatica, nutrendola con fieno, ma ora non riescono più a farlo. Dicono che la colpa è del clima che è cambiato, ma anche del sovrappopolamento di bestiame da allevamento. Negli ultimi 30 anni il numero di capi di Bos taurus introdotti nelle riserve è aumentato del 1.100 % e consistenti porzioni di foresta sono state disboscate per creare pascoli. La terra è desertificata ed esausta, e i periodi di siccità hanno conseguenze sempre più gravi, mentre un tempo venivano superate con danni sopportabili.
IMPRESA
DISPERATA
«I Masai capiscono perché questo sta accadendo ha detto ancora Hamilton James -. È la loro terra, sanno che è stremata. Sono un popolo legato al bestiame, ma sono consapevoli che ce n’è troppo».
Il governo ha invitato a fornire agli animali selvatici sale da leccare e acqua, ma è un’impresa disperata: un elefante ne beve più di 60 litri al giorno e non c’è modo di portarne così tanta alle mandrie superstiti. È l’intero Corno d’Africa, che oltre al Kenya comprende anche la Somalia e l’Etiopia, a soffrire per la mancanza di precipitazioni, la più grave registrata nell’area da 40 anni. Almeno 36 milioni di persone non hanno abbastanza cibo a causa dei raccolti perduti e le previsioni non tendono all’ottimismo: dal 2020 la stagione delle piogge che va da ottobre a dicembre ha costantemente registrato precipitazioni inferiori, e la durata e la gravità della siccità hanno superato quelle dei già terribili 2010-2011 e 2016-2017. Nel luglio scorso si stimava che 19,4 milioni di persone fossero colpite dalla mancanza d’acqua. In ottobre sono quasi raddoppiate: 24,1 milioni in Etiopia, 7,8 in Somalia e 4,2 in Kenya. La pioggia che doveva fermarsi sull’Africa se n’è andata quasi tutta nei posti sbagliati, come Sidney in Australia, dove ne sono caduti 2,2 metri da gennaio, un record. Il mondo non è più quello di prima, e dovremo abituarci.