il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2022
Estratto dal libro postumo di Pietro Citati
Pubblichiamo alcune pagine dell’ultimo libro, postumo, di Pietro Citati, La ragazza dagli occhi d’oro (Adelphi)
Non amare Dickens è un peccato mortale. Chi non lo ama, non ama nemmeno il romanzo; e non capisce che l’arte dell’Ottocento ha raggiunto il suo culmine nei più divertenti, pittoreschi e riflessivi romanzi che siano mai stati scritti e che mescolano il più folle riso e la più angosciosa discesa nelle tenebre. Senza la lettura di Dickens non possiamo capire né Dostoevskij né Tolstoj né Joyce né Kafka e nemmeno Dylan Thomas. Vissero insieme a lui, abitarono dentro di lui, come si abita nella propria casa, e appresero da lui il tragico, il pittoresco, il farsesco, il patetico, il mostruoso, il folle. Tutti, in una parola, scorsero in Dickens un grande specchio – uno di quegli specchi esagerati, incrinati e velati, che talvolta si trovano nelle vecchie soffitte. Nessuno conobbe il suo fiducioso candore, e nessuno fu più allucinato. Nessuno raccontò come lui la vita colorata e felice. E nessuno si inoltrò ogni giorno con tale fervore nel regno delle tenebre. Era luminosissimo e notturno: superficiale e profondo: lieto e pieno di angoscia; gioioso e divorato dall’ossessione. Così possiamo chiedergli le cose più contrastanti: i prodigi dei sogni e delle Mille e una notte e le più banali volgarità quotidiane. I suoi libri inseguono insieme le astuzie truculente della stampa popolare e le astuzie degli scrittori sperimentali.
Qualcuno dice che Dickens non amò mai veramente nessun essere umano; e che i suoi rapporti col pubblico “furono la più importante storia d’amore della sua vita”. Temeva di perdere all’improvviso quel successo che aveva conquistato improvvisamente; e lo inseguiva con ogni libro, con ogni racconto, parlando alla enorme famiglia dei suoi lettori, seduta davanti al focolare, ai tacchini e al plum-pudding. Tanto inseguito e corteggiato, tanto desiderato e temuto, il successo non lo deluse mai: a volte divenne favoloso, come nel caso della Bottega dell’antiquario (1840-1841). I lettori americani leggevano a puntate, con qualche settimana di ritardo, le dispense, e quando una nave inglese raggiunse il porto di New York, si trovò circondata dalla folla, che domandava ansiosamente ai passeggeri: “Nella è morta?”.
Dickens riempiva la realtà con un’allegria furiosa, eccitando ed esaltando il suo genio. Qualche volta ci pare che nessuno si sia divertito tanto a passeggiare sulla superficie della terra. Una misteriosa ilarità lo attraversava, lo colmava ed egli non riusciva ad interromperla, quasi fosse stato percorso da una zampillante fontana di fuoco. La fantasia possedeva il suo corpo come un grande dèmone alato: ne abitava il cervello e il cuore, il ventre, le mani e i nervi: non lo lasciava mai, quasi che Dickens imprigionasse ogni traccia di dèmoni: ad un tratto gettava i primi segni sulla carta, e cominciava a saccheggiare l’universo.
Quando pubblicò la Bottega dell’antiquario era ancora giovane: aveva meno di trent’anni, come Manzoni al tempo dei Promessi sposi.
(…) Gli occhi ostinati e malvagi del vecchio protagonista sono il luogo centrale del libro. Da quegli occhi Dickens si abbandona al filo della sua fantasia, portandoci chissà dove. Il giorno scompare: il mattino scompare, il tramonto scompare, come accade in Dombey e figlio. Ecco la casa notturna in rovina, le barche abbandonate sul Tamigi; ecco Londra dal cuore alla periferia, ecco la città lontana che brucia e la fuga dei cittadini: l’ardore delle officine, la notte che colpisce gli innocenti e i colpevoli. Da un lato appare Quilp, il nano mostruoso e ripugnante: un vero aborto di natura, che terrorizza gli attori e i lettori e lo stesso Dickens, che amava la moderazione. Dall’altro lato c’è Nelly, la creatura angelica, il fiore della natura, che il Male ricerca e perseguita.
C’è una doppia fuga, o una doppia morte. Ecco l’orribile nano precipitare e annegare nelle acque del Tamigi. Ecco Nelly fuggire inseguita, anche da se stessa e dalla sua mente angelica; e perdersi in un cimitero. Il Male vince e sopraffà il bene. L’innocenza cerca di lasciare la terra per il cielo. C’è un ragazzo delizioso e giocoso: ci sono gli incantevoli cavallini che percorrono l’Inghilterra. Ci sono le grandi carrozze immerse nel fango; e una troupe di burattinai che fa spettacolo.
(…) E c’è il lieto fine: uno strepitoso lieto fine. La servetta diventa la Marchesa che continua a ficcare il naso dalle finestre e dalle soffitte e dai fori tappati delle porte. L’occhio di Dickens guarda dovunque, guarda sopratutto noi, che lo leggiamo e veniamo letti da lui: specie quando il sole è a picco nel cielo senza nubi e i colori vibrano di felicità: quando lo spirito è elastico e l’appetito è robusto e tutti quanti sono contagiati dalla gioia. Dickens amava i buoni, ma a patto che fossero ridicoli: i vecchi putti, i canuti angioloni innocenti, i folletti giocherelloni, Don Chisciotte, i “poveri di spirito”, i “divini idioti”, gli infimi nella scala della società, ai quali qualcuno – forse Dio – ha affidato il compito di salvare la terra. Non dobbiamo avere dubbi. La terra può e deve esser salvata. “Così finisce la Bottega dell’antiquario – tutto passa, come una favola che qualcuno racconta”.