il Giornale, 19 novembre 2022
Pinocchio antifascista
Fu il Ventennio che per primo arruolò Pinocchio, facendolo diventare protagonista di alcuni racconti. Ad esempio, nel 1923 uscì Avventure e spedizioni punitive di Pinocchio fascista, in cui il giovane Pinocchio terrorizza con i suoi scherzi i comunisti. Per dire, uscì anche Pinocchio fra i balilla: nuove monellerie del celebre burattino e suo ravvedimento, datato 1927, e Pinocchio istruttore del Negus, con tanto di vicende trasportate nell’Africa Orientale. Insomma, Pinocchio in camicia nera non è qualcosa di insolito, almeno per quell’epoca.
Ora, invece, a distanza di quasi un secolo da quelle lontane apparizioni, riecco ancora il burattino di Collodi alle prese con il fascismo e, addirittura, il Duce. L’idea è quella di Guillermo del Toro che in Pinocchio, dal 4 dicembre in alcune sale cinematografiche selezionate e dal 9 su Netflix, lo erge a paladino dell’antifascismo. Senza mezze misure e con una scena, in particolare, molto significativa. Quella in cui appare Benito Mussolini che vuol vedere dal vivo questo miracoloso burattino che si muove senza fili. Già lo sbertucciano quando viene preso in braccio, per farlo scendere dall’auto, ironizzando così sulla statura del Duce, ma poi, ecco che Pinocchio, mentre tutti alzano il braccio destro col classico saluto fascista, gli dedica, durante lo spettacolo, una canzone scatologica come «Big Baby Il Duce March». Con tanto di vendetta di Mussolini. Guillermo del Toro ha voluto spiegare la sua scelta: «Per me era fondamentale mostrare un mondo in cui ognuno si comporta come un burattino e ubbidisce, mentre il vero burattino è l’unico a disubbidire». Interessante, da questo punto di vista, è la figura, inedita, del parroco del paesino, un cattolico che si allea con il podestà fascista. Del Toro è un regista non nuovo a operazioni di questo tipo, come avvenuto con Il labirinto del fauno (tre premi Oscar) che aveva girato per mettere in risalto gli orrori del franchismo.
Chiamarlo il Pinocchio di Collodi è sbagliato. Questo è il Pinocchio di Guilermo del Toro, una storia completamente avulsa dall’originale. Un film più cupo ed esistenziale, una favola dark che parte dalla tragedia vissuta da Geppetto. Il figlio Carlo, di dieci anni, muore durante un bombardamento aereo e lui, ubriacandosi continuamente, tira avanti mangiando sempre meno e invocando la morte. Fino a quando, una sera, pur ubriaco, crea un Pinocchio quasi vicino a Frankenstein, come ha rivelato lo stesso regista, sperando che questa creatura, in qualche modo, gli possa dare sollievo. Un Pinocchio che il «padre» fatica ad accettare; figuriamoci un Paese che onora un Gesù in legno, ma non un burattino creato con la stessa materia. Un Paese dove ad ogni angolo compare la scritta «Credere, obbedire, combattere» e in cui Lucignolo è il figlio del podestà fascista, uomo dallo sguardo spigoloso e che vorrebbe che il suo ragazzo fosse virile quanto lui. Tanto da mandarlo, camicia nera indossata, alle esercitazioni dei Balilla, in compagnia dell’amico Pinocchio, in vista dell’imminente guerra, all’interno di un campo di addestramento fascista a forma di M gigante. Non ci sono il Gatto e la Volpe, né la Fata dai capelli turchini, ma c’è il Grillo che ha ambizioni da scrittore, evidentemente non ancora colpito dalla crisi della carta. Al posto di Mangiafoco c’è il Conte Volpe, che dirige un luna park itinerante e ha come aiutante la scimmietta Spazzatura. Pinocchio prende vita grazie allo Spirito del bosco, mentre, quando muore, viene rimandato sulla Terra dallo Spirito della Morte, una creatura che ricorda la Sfinge. Insomma, se andassimo a cercare qualche attinenza con il Pinocchio di Collodi resteremmo delusi, pescecane a parte. Questo è il Pinocchio pacifista di Guillermo del Toro.
Creatura che non aspira a diventare qualcosa di diverso (un bambino), ma a migliorarsi senza tradire la propria natura. Una ribellione quasi anarchica, con tanto di simil crocifissione. Girato con la tecnica della stop-motion, fortemente voluta dal regista, il film è visivamente impressionante, cercando di non esondare mai dall’equilibrio tra macabro e grottesco. Il risultato, però, non sempre convince. A volte si avverte una freddezza meccanica che lascia indifferenti e la colonna sonora è davvero poca cosa.