la Repubblica, 19 novembre 2022
La camorra, criminalità orizzontale
Dalla seconda metà degli anni Novanta del Novecento è decisamente cambiata la gerarchia all’interno delle mafie italiane: ciò che noi definiamo “camorra”, ossia le variegate bande criminali operanti a Napoli e in altre zone della Campania (e che meglio andrebbero definite “camorre”) ha assunto un ruolo di vertice inimmaginabile fino a pochi decenni fa. Questa particolare organizzazione criminale di tipo mafioso ha scalzato (assieme alla ‘ndrangheta) Cosa nostra dal ruolo di leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla cattura di Totò Riina. E nessuna istituzione di contrasto alle mafie aveva mai avanzato una previsione del genere, nessuno studioso della materia aveva ritenuto possibile una scalata simile. Ciò potrebbe spiegarsi con il fatto che la camorra, pur essendo nata prima della mafia siciliana (negli anni Venti dell’Ottocento) ha conosciuto una storia meno lineare, fatta di lunghe interruzioni già prima del fascismo, di presenze intermittenti e quindi meno afferrabile dall’analisi storica. Diverse volte è stata data per “finita”. La stessa ricomparsa della camorra nel Secondo dopoguerra, a seguito del ruolo assunto dal porto di Napoli nelle rotte del contrabbando di sigarette, era legata ad una funzione ancillare verso Cosa nostra, la quale utilizzò i clan di camorra nella lotta contro i criminali marsigliesi per il dominio dei traffici illegali nel Mediterraneo. La camorra, considerata fino a pochi anni fa una semplice forma di banditismo urbano, è oggi la criminalità mafiosa più in ebollizione per l’alta conflittualità interna e per le sue capacità di espansione nell’economia legale; e quella che sembrava una forma di banditismo rurale (cioè la ‘ndrangheta) ha letteralmente conquistato il Centro-Nord. Pertanto, tutte leprevisioni in materia di evoluzione dei fenomeni mafiosi si sono dimostrate sbagliate. Possiamo definire la camorra come “criminalità-bazar”, specializzata a vendere e a comprare tutto ciò che si consuma sui mercati illegali, a controllare i traffici avviati sul proprio territorio e ad alimentare la domanda anche di quelli lontani, ad investire i guadagni accumulati nell’economia legale. La più preoccupante rappresentazione di quel “mercantilismo criminale” tipico delle grandi città e delle aree metropolitane. E al tempo stesso la possiamo definire una mafia di massa. Perché mai la forte repressione successiva all’uccisione di Falcone e Borsellino ha avuto così strutturali conseguenze sulla mafia siciliana mentre non l’ha avuta sulle bande di camorra e sulle ‘ndrine? L’impressione è che il modello piramidale della mafia siciliana si è dimostrato più esposto a una repressione massiccia dello Stato, mentre i modelli organizzativi della ‘ndrangheta e della camorra sono stati più in grado di assorbire i colpi senza intaccarne la riproducibilità. Nel caso della camorra sono stati decisivi, contrariamente alle previsioni, la notevole frammentarietà dei clan (più di 180) e l’assenza di un coordinamento tra loro. Si aggiunga a ciò che la mafia siciliana è stata vittima della sua aspirazione a egemonizzare le relazioni con il mondo politico e istituzionale, aspirazione mai coltivata dalle altre due. La ricerca del monopolio del comando, la bramosia di un potere assoluto ha condotto Cosa nostra sulla via degli attentati ai vertici delle istituzioni politiche e repressive. Ma quei “delitti eccellenti” hanno determinato una reazione non preventivata dello Stato che è andata ben al di là della stessa volontà di coloro che con la mafia siciliana avevano stabilito lunghe e proficue relazioni. Quando, infatti, si colpisce una élite criminale che esercita un comando centralizzato, la possibilità di una riproposizione del fenomeno è più lenta perché l’organizzazione di tipo piramidale (basata sulla leadership di capi) ha più difficoltà a ricostruirsi. Nel modello orizzontale della camorra, basata sulla disponibilità di massa di manodopera criminale, invece, se si colpiscono i capi non si assesta di per sé un colpo risolutivo all’organizzazione, la quale si rigenera continuamente proprio per la fluidità degli apparati di comando e per la bassa soglia di accesso nei clan. Più rigido il modello piramidale e centralizzato, più fluido ed elastico quello orizzontale. Il modo di organizzarsi delle camorre sembra corrispondere nel mondo del crimine a ciò che il modello dei distretti industriali ha rappresentato nell’evoluzione dell’economia italiana: competere nel mondo copiando i vicini facendosi concorrenza (violenta) e mantenendo stretto il rapporto tra dimensione locale ed espansione globale. Quello delle camorre è un modello fluido, policentrico, conflittuale, e di grande efficacia criminale e imprenditoriale. Non è affatto vero,dunque, che nel campo della criminalità essere organizzati voglia dire necessariamente dotarsi di una struttura piramidale, così come non è affatto vero che se si manca di una struttura superiore di coordinamento ciò equivalga ad essere disorganizzati. Le camorre sono solo organizzate diversamente. Il modello piramidale o coordinato non è l’unico modello di mafia e non è di per sé il più efficiente e vincente. Esiste anche quello federativo e quello a rete, modelli nei quali le camorre napoletane si sono specializzate. Funziona meglio, insomma, la “poliarchia” territoriale, secondo la definizione di Maurizio Catino. Parafrasando Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina, si potrebbe dire che ogni territorio senza criminalità è felice allo stesso modo, ogni territorio dominato dalla criminalità è, invece, infelice ciascuno a modo suo. Quindi, le ragioni del lungo radicamento delle camorre vanno individuate sia nelle modalità organizzative sia nelle condizioni sociali di riferimento. Le camorre non sono in grado da sole di spiegarci Napoli e la Campania. È semmai la storia di Napoli e della Campania (nel permanente intreccio con quella nazionale) a spiegarci il successo così duraturo di quelle bande criminali, solide e liquide, stabili e frammentate, che vanno sotto il nome di camorra.