La Stampa, 19 novembre 2022
L’arbitra nera del Qatar
Quando Salima Mukansanga entra all’ SC Stadium di Doha per la rifinitura che la porta dentro i Mondiali sta finalmente nel posto giusto. È una delle sei donne scelte da Collina per la squadra degli arbitri: tre direttrici di gara, lei, l’esperta Frappart e l’asiatica Yoshimi Yamashita, con le tre assistenti si completano le confederazioni e si sistema un buco dentro il Mondiale che mai prima aveva declinato al femminile il mestiere di chi controlla la partita.La strada che porta Mukansanga qui, dentro la Doha dei quartieri meno pubblicizzati, dove non c’è un grammo di fascino, tra palazzi alti con le finestre a specchio, è stata una continua deviazione. Nata in Rwanda nel 1988, cresciuta negli anni della guerra civile, innamorata del basket in quelli della ricostruzione «ma da noi non c’erano campi per giocare o tecnici per imparare, sono passata al calcio». Anche lì stessa trafila: sport giusto però ruolo sbagliato e infatti ne ha cambiati un po’ prima di trovarsi ad arbitrare una partita del college. Era la finale di un torneo universitario, nessuno aveva previsto che servisse un arbitro ed è sbucata una arbitra. Mukansanga ha scoperto un talento e ha capito lì che avrebbe modificato la rotta degli studi, era quasi pronta a diventare ostetrica, invece ha preso il suo diploma da infermiera e si è dedicata ad altro.L’ultima curva è una convocazione battezzata come errore: «Io aspettavo la chiamata per il Mondiale femminile, non mi avrebbe stupita e quando ho letto il mio nome nell’elenco per il Qatar ho pensato a un errore. Non ho nemmeno ipotizzato potesse avere un senso, ho chiamato il supervisore quasi per chiedere come si potesse correggere e lui ha confermato». Pausa. Sorriso «e se adesso sono qui un motivo ci sarà, non perché sono una donna, perché sono una arbitra».A conferma, si guarda in giro: sta sul terreno di allenamento dove gli arbitri ripassano il fuorigioco semiautomatico, novità tecnologica di questo Mondiale. Anche lei sarebbe una novità solo che nessuna delle sei presenti, nonostante la prima volta, è disposta a considerare differenze, a riordinare caratteristiche: «Può darsi che non sia più veloce di un collega uomo, ho altre qualità, ma io ringrazio la Fifa dell’opportunità e a questo punto rifiuto la differenza. Siamo insieme, ci prepariamo allo stesso modo, con il 2022 si elimina ogni distinzione quindi siamo nelle condizioni di farci trovare al meglio. Dopo il Qatar arbitrare diventerà un mestiere ancora più neutro».Lei vive a 200 km da Kigali, è tornata dalla famiglia prima della partenza per il Golfo: «Sono molto legata ai miei parenti, sono riconoscente: mi hanno sempre permesso di fare quel credevo e questo mestiere mi realizza». Sa che la sua presenza qui la trasforma in un modello per l’Africa: «A casa mia per le donne è più difficile emergere, il mio esempio è la prova che si possono inseguire i sogni e realizzarli anche quando non hanno precedenti».Smette di parlare e corre all’indietro, risucchiata dal gruppo, sicura del proprio posto. Il punto di partenza non è dei più scontati anche se lei è stata la prima a entrate nel giro della Coppa d’Africa e nessuno ha avuto a che ridire: «Stesso trattamento riservato ai miei compagni di lavoro, anche se so di aprire delle porte ad altre donne, so pure che presto sarà un passaggio senza stupore e senza accenti». Nomina spesso Dio, per dare al destino una precisa volontà, è religiosa ed è una scelta a cui tiene: «Dico grazie anche al Signore, questo non è un premio e non è un traguardo. Io voglio fare bene, voglio dimostrare che se mi hanno voluta qui è perché ho diritto a starci». Nel posto giusto, nel momento ideale, in attesa di avere una partita tra le mani e accompagnarla in archivio senza errori. Novantadue anni di Mondiali e mai un’arbitra: «A qualcuna stavolta toccherà, ho parlato con le colleghe, nessuna lo vede come un peso, sarà naturale anche se lascerà un segno. Giusto dirlo, però senza lasciarsi condizionare».