3 ottobre 2022
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Biografia di Christoph Waltz
Christoph Waltz, nato a Vienna (Austria) il 4 ottobre 1956 (66 anni). Attore. Regista. Vincitore, tra l’altro, di due premi Oscar al miglior attore protagonista (per Bastardi senza gloria e Django Unchained di Quentin Tarantino, rispettivamente nel 2009 e nel 2012) e del premio alla miglior interpretazione maschile al Festival di Cannes (per Bastardi senza gloria, nel 2009). «A me stesso devo la mia preparazione, a Tarantino l’avermi permesso di trovare un posto nel mondo» • Figlio di uno scenografo tedesco e di una costumista austriaca di ascendenze slovene, nipote e pronipote di attori teatrali e cinematografici dell’epoca del muto nonché nipote di uno psichiatra e psicologo allievo di Sigmund Freud. «Che rapporto aveva con i suoi genitori? (Waltz inizia a ridere). […] “Non basterebbero cinque anni di sedute psicoanalitiche per descrivere il rapporto con i miei genitori! Mio nonno, il dottor Rudolf von Urban, era uno studente di Sigmund Freud e ha scritto i primi libri su autostima e motivazione. Io personalmente non credo nella psicoanalisi come cura, ma come aiuto per scoprire noi stessi sì”. Quando ha capito che avrebbe fatto carriera nel cinema? “Fin dal mio primo ruolo. Il mio sogno era di avere una carriera come cantante lirico, ma purtroppo non ha funzionato. Eppure sin da bambino sapevo che sarei stato un artista. Poi a 17 anni, lavorando durante l’estate in uno studio televisivo, ho scoperto il cinema”» (Roberto Croci). «Ho studiato canto e opera all’Università di Musica e Arti interpretative in Austria e poi al Max Reinhardt e parlo inglese da sempre. Infatti scelsi dopo la mia laurea di andare a vivere a New York perché volevo studiare con Stella Adler e Lee Strasberg. Poi ritornai a Zurigo per impegni teatrali e recitai sui palcoscenici di Colonia e Amburgo. La mia prima moglie era americana: a un certo punto decidemmo di trasferirci a Londra con un piede tenendo l’altro a Berlino, e questo mi è stato utile. Ho perso ogni accento, mi sento un trasformista e un po’ un prestigiatore con la voce» (a Giovanna Grassi). «Ha trascorso 15 anni della sua carriera a Londra, affittando una casa con la sua prima moglie americana, Jackie, una psicoterapeuta, e i loro tre figli in età scolare. […] Waltz dice che quando ha iniziato a lavorare a Londra era ostacolato dal suo accento. Desiderava interpretare Shakespeare, ma continuava a sbattere contro un muro. Ricorda una volta che aveva implorato il regista teatrale Peter Wood di lasciargli interpretare il ruolo di Calibano in La tempesta, e quanto fosse scandalizzato Wood alla prospettiva. “Disse: ‘Questo è Shakespeare, quindi Calibano è inglese’. E io dissi: ‘Ma c’è qualcosa che non va in uno spirito della terra che parla con un accento diverso? Sta ancora recitando Shakespeare, pronuncia solo le parole in modo diverso’. Ma [Wood] disse ‘Scusami! Questo è Shakespeare!’, e quindi cosa puoi fare? Un pregiudizio del genere… è assolutamente insormontabile”. […] Alla fine degli anni ’80, Waltz interpretò il dottor Hans-Joachim Dorfman in The Gravy Train, una miniserie di Channel 4, e continuò ad apparire (con un’aria a disagio e un po’ imbronciata) come una buffa spia tedesca in The All New Alexei Sayle Show. […] Se hai bisogno di un corso accelerato sullo Waltz non ancora famoso, dai un’occhiata a YouTube. Eccolo, mentre saltellava in un body a righe sulla tv per l’infanzia, mentre dava piacere a una damigella con le dita dei piedi all’interno di una vasca da bagno traboccante in una miniserie storica, mentre veniva messo in ombra da un cane che combatte il crimine in un programma intitolato Il commissario Rex. La sua carriera, ammette, ha collezionato “più bassi che alti”: una volta ha trascorso nove mesi da disoccupato dopo aver lasciato un teatro perché odiava i suoi colleghi (“Me ne andai via in pessimi rapporti”). […] È mai stato tentato di mollare la recitazione e trovare un nuovo ambito lavorativo? “Curiosamente, mia moglie in effetti sollevò la questione. La sollevò ripetutamente. In modo molto incoraggiante, diceva: ‘Oh, potresti fare qualsiasi cosa. Sei così talentuoso. Perché fai questo?’”. Waltz ride senza allegria. “Mi offesi. A dir poco”. Il matrimonio si ruppe e lui si trasferì a Berlino. Si sposò di nuovo, con la costumista Judith Holste; la coppia ha una figlia. […] Eppure Waltz era ancora in difficoltà, fino a un certo punto. “Voglio dire, non ho mai dovuto lavorare in una compagnia di autonoleggio”, dice. “Mi guadagnavo da vivere, quindi immagino fossi un privilegiato”. […] Ci furono decenni di crisi e una serie di ruoli recitativi scadenti, molti dei quali rimandò indietro, e alcuni dei quali mandò giù, perché cos’altro poteva fare? “Non c’era alternativa”, dice Waltz mestamente. “O, meglio, l’alternativa era un fiume molto profondo. E una pietra pesante intorno al mio collo”. Penso che stia scherzando, ma forse no. […] “Ho fatto così tanti lavori perché dovevo, non perché volevo. Ed è onorevole fare un lavoro perché hai bisogno di nutrire i tuoi figli, e forse ne puoi anche trarre qualcosa per la tua evoluzione come attore. Ma solo fino a un certo punto. La frustrazione può avere la meglio su chiunque. E ho paura di immaginare cosa mi sarebbe successo se non fosse stato per Quentin”» (Xan Brooks). «Avevo già 53 anni e sono stato tra gli ultimi a fare l’audizione per il ruolo di Hans Landa. Anni dopo ho saputo che Quentin non riusciva a trovare un attore che potesse interpretare quel ruolo e aveva quasi deciso di mettere il film in un cassetto. Con quel film ho vinto 29 premi, compresi Oscar, Golden Globe, Bafta e Cannes» (Croci). «Durante il monologo del poliglotta colonnello nazista Hans Landa che apre Bastardi senza gloria, i mille critici nella Salle Debussy si chiesero all’unisono chi fosse quel magnifico interprete e dove fosse stato nascosto fino a quel momento. Era il Festival di Cannes 2009, l’anteprima mondiale del film di Quentin Tarantino che avrebbe cambiato per sempre la vita all’oggi due volte premio Oscar. […] Sorride: “Creda, anche per me quel momento a Cannes fu speciale, anche se conservo solo un vago ricordo del momento, come pure delle cerimonie agli Oscar. Preferisco non pensarci, guardare avanti. Ma, da allora, ho potuto giocare le partite con i grandi autori, scegliere ruoli e film, far nascere progetti. Senza più paura di non riuscire a mettere insieme i soldi per pagare l’affitto. Queste cose sono tutte frutto di quel momento, di quelle circostanza. Non del mio lavoro, ma della fortuna”» (Arianna Finos). «Sulla scia di Bastardi senza gloria, Waltz era improvvisamente molto richiesto. […] Ha interpretato un sadico direttore di circo in Come l’acqua per gli elefanti, un caustico avvocato di New York in Carnage di Roman Polański e un artista fraudolento in Big Eyes di Tim Burton. Lo amo di più in Django Unchained, l’esuberante vendetta western di Tarantino del 2012, in cui Waltz interpreta il dottor King Schultz, un cacciatore di taglie che aiuta uno schiavo liberato (Jamie Foxx) a trovare sua moglie. Schultz è misurato, giocoso e suadente. Fornisce un chiaro orientamento morale in un film che altrimenti vola in tutte le direzioni» (Brooks). La sua recente filmografia, però, annovera anche «una valanga di parti da antagonista che oscillano tra l’autoparodia (The Green Hornet), l’ironico e fumettoso (I tre moschettieri), fino al platealmente grossolano (Tarzan). Tutti lo volevano come cattivo, cavalcando la parte più superficiale della sua apparenza: solo Terry Gilliam ha avuto il coraggio di rasarlo a zero e farne un protagonista (più o meno) positivo in The Zero Theorem» (Gabriele Niola). Nel 2019 «Waltz si è sentito pronto per passare dall’altra parte della macchina da presa con Georgetown. […] Ispirato a una storia vera e all’articolo di Franklin Foer The Worst Marriage in Georgetown pubblicato sul New York Magazine, il film è un thriller psicologico per il quale il neoregista si è ritagliato anche il ruolo dello scomodo protagonista, Ulrich Mott, uomo influente dalle grandi relazioni, conosciuto e amato da tutti a Washington. Quando la ricca moglie novantenne Elsa Breht (Vanessa Redgrave) viene trovata assassinata, le indagini riveleranno qualcosa di sorprendente. Tutti sono stati ingannati. […] Ulrich Mott ha qualcosa in comune con il colonnello Landa: è un abilissimo affabulatore, dalle maniere gentili ed estremamente attento alla forma, ha un aspetto delicato che nasconde però un animo profondamente corrotto e spietato» (Chiara Ugolini). «Ciò che amo in questa storia è come una persona voglia ridefinire se stessa senza avere i mezzi per farlo. Mott non è un truffatore o una cattiva persona: è un uomo che grazie all’aiuto di qualcuno comincia una fase positiva, progredisce, costruisce, ma alla fine non riesce a superare i propri limiti, a vincere delle forze contrarie, e perde il controllo. Può succedere a ciascuno di noi, una volta o l’altra: un granello minuscolo, a livello esistenziale, può condurre alla catastrofe». Tra le ultime pellicole cui ha preso parte, Rifkin’s Festival di Woody Allen (2020), The French Dispatch di Wes Anderson (2021) e No Time to Die di Cary Fukunaga (2021), venticinquesimo capitolo della saga di James Bond. Prossimamente l’attore tornerà sul grande schermo in Billy Wilder & Me di Stephen Frears, adattamento del romanzo Io e Mr Wilder di Jonathan Coe, nei panni del grande regista • «La sua passione per l’opera l’ha portata a metterne in scena due, Il cavaliere della rosa di Strauss e il Falstaff di Verdi. Come è nata questa sua passione? “Sono cresciuto a Vienna e andavo all’opera due volte alla settimana. Il mio patrigno era compositore e direttore d’orchestra. La prima volta che sono stato all’opera ho visto la Turandot, cantata dalla soprano Birgit Nilsson. Incredibile! Io sono un baritono, ma canto solo a casa”» (Croci). «Il sogno proibito? Dopo il Covent Garden, vorrei arrivare alla Scala» • Sposato in seconde nozze, quattro figli: un maschio e due femmine dalla prima moglie, un’altra femmina dalla seconda e attuale consorte • «Waltz ha fatto della battaglia per la privacy la sua bandiera da quando – aveva 25 anni – una giornalista al telefono lo interrogò su chi fosse il neonato che urlava in sottofondo: “Un maschio? Una femmina? Il nome?”» (Finos). «La vita è bella, ha realizzato ciò che sognava e l’unico aspetto negativo possibile è la perdita dell’anonimato. Il che è sciocco, ammette, perché bramava così tanto il riconoscimento – chi non lo fa? “È un problema senza soluzione”, dice. “Puoi essere un osservatore anonimo per tutta la vita, ma poi non hai mai la piattaforma per trasformare quelle osservazioni in arte, o in qualunque cosa tu voglia trasformarle. E questo è un deplorevole paradosso, perché è il motivo per cui l’industria dell’intrattenimento è così ermetica. Si chiude fuori dal mondo di cui vuole parlare”» (Brooks) • «Parla perfettamente inglese, tedesco, francese. In quale idioma pensa? “Dipende da dove mi trovo. Mi sveglio al mattino pensando sempre in tedesco, ma nel corso della giornata perlopiù penso e parlo in inglese. Mia moglie è una costumista e si occupa anche di arredamento e parliamo tedesco a casa con nostra figlia. Anche i tre figli del mio precedente matrimonio con una psicanalista newyorkese parlano tedesco. Sebbene io viva molti mesi tra Los Angeles e New York, Berlino è la città dove mi sento a casa, e poi, la trovo quanto mai stimolante. Londra è la metropoli che ho scelto nella maturità e dove vado di più a teatro”» (Grassi) • «A volte posa per servizi di moda maschile. Quanto è vanitoso? “Posso rispondere in un solo modo. Anche gli uomini sono vanitosi, non solo le donne! Come il mio amico Kevin Spacey, amo l’eleganza classica, con qualche punta di estro e originalità. Mi scopro un po’ gigione se guardo il mio guardaroba, le mie cravatte, il mio tatuaggio […] e le mie scarpe. Cerco di essere elegante anche nei miei ruoli da cattivo”» (Grassi) • «Sornione, garbato, colto, affascinante» (Alessandra Venezia). «Elegante, flemmatico, laconico» (Finos) • «Ogni centimetro è l’emigrato colto e mitteleuropeo. […] Potrebbe essere uscito completamente formato da un romanzo di Nabokov o di Thomas Mann» (Brooks) • «Sì, lavoro molto, ma sono capace di rilassarmi e ho una tecnica semplice per ricaricarmi. Mi tonifico con un Martini dry. Lo so, sembra una battuta da 007 degna di Sean Connery» • «Quali sono gli artisti che hanno influenzato la sua evoluzione professionale? “Marlon Brando è stato molto, molto importante per me per il modo in cui si presentava sullo schermo. Ho sempre amato George Cukor: Scandalo a Filadelfia è il primo film che ho visto in una sala cinematografica e sono rimasto sulla poltrona per tutte e tre le proiezioni successive. Cary Grant è un attore che ho studiato molto: ironico, divertente ma sempre con un sottile cinismo. Intramontabile. E poi Martin Scorsese e Robert De Niro, il mio idolo: è capace di dare spessore a qualunque personaggio, anche quando non dice nulla. Ho imparato molto dai registi con cui ho lavorato, soprattutto da quelli scarsi e senza talento”» (Croci) • Tra i suoi film preferiti, «Il momento della verità (1965) di Francesco Rosi, Vivere (1952) di Akira Kurosawa e I vitelloni (1953) di Federico Fellini. E, a proposito di Fellini, racconta di quella volta a Zurigo quando lo incontrò per i provini di E la nave va (1983): “Avevo 24 anni, ero un vero ribelle: ricordo che ha preso una mia foto in cui ridevo e ha ritagliato il mio sorriso”» (Emanuele Bigi) • «Come sceglie i ruoli da interpretare? “In base al copione e al regista, e mi piace variare, passare dai film in costume a storie vere a 007”» (Grassi). «Non sminuisco un film o una pièce perché sono comici o brillanti: come in teatro, devi sempre caratterizzare con tutto te stesso un ruolo, grande o piccolo». «Mi reputo una persona gentile, ma i registi mi prediligono per ruoli perfidi». «Per me i dettagli sono importanti: sono quelli che fanno un personaggio. Più ne raccogli, più conosci la persona che interpreti». «In fondo, il mio mestiere è solo quello di raccontare storie: ecco, sono un affabulatore» • «Avere tenacia nella vita è una forma di passionalità e di intelligenza» • «Ha sperimentato il successo, e gli piace anche molto. “Sarebbe completamente ridicolo se affermassi di essere sempre stato motivato dalla pura arte della recitazione e che il riconoscimento non abbia un ruolo”, dice. “Certo che lo ha: questa è la natura umana. L’artista bohémien che vive solo per la sua arte è un mito. Ok, poteva essere vero per Giacometti, ma di certo non lo era per Picasso o Mozart. Non esiste una cosa come l’arte pura. È una presunzione borghese”. […] “Penso che il successo mi abbia reso più comprensivo”, dice. “Voglio dire, sono intollerante come prima, ma sono infinitamente più comprensivo. Perché ci sono così tanti bravi attori che vorrebbero lavorare su buoni progetti e applicare il loro notevole talento a un grande testo. Eppure devono guadagnarsi da vivere. Devono sopravvivere in una qualche forma di dignità, se possibile, e forse non è nemmeno possibile. E, mio Dio, ci sono passato”» (Brooks). «Lo spettacolo è stato generoso con me. Mi ha offerto incontri eccezionali, esperienze complete sul piano emotivo e culturale e ho conosciuto uomini e registi di grande valore: penso, ad esempio, al polacco Krzysztof Zanussi. Non ho mai trasformato la recitazione in routine grazie a tanti artisti autentici, impegnati, appassionanti. […] Devo molto a Quentin Tarantino, mi ha dato una popolarità che non avevo avuto con Bastardi senza gloria e Django. Ho recitato con Polański in Carnage e con altri eccellenti autori, ma Quentin mi ha dato una seconda giovinezza come attore» • «I suoi giorni del sussidio sono molto lontani da lui, eppure ne porta con sé l’esperienza; si sorprende a contare costantemente i suoi penny. Judith dirà: “Puoi buttare via quel tostapane, non funziona più. Basta comprare un nuovo tostapane. Hai due Oscar, per l’amor di Dio”. E lui la fisserà e le dirà: “E questo che c’entra?”. Perché in un certo senso crede ancora di essere quell’attore operaio, a un passo dal banco dell’autonoleggio. […] “Per quanto tu possa sforzarti, non potrai mai liberarti dal tuo passato”» (Brooks) • «Le accade di pensare vedendosi sullo schermo che gli anni hanno lasciato un segno sul suo volto? “Tutti invecchiamo, ma io sono stato Amleto in teatro a poco più di vent’anni, e dalla vecchiaia mi aspetto diversi e magnifici ruoli”» (Grassi).