13 ottobre 2022
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Biografia di Farah Diba
Farah Diba, nata a Teheran il 14 ottobre 1938 (84 anni). Vedova dello scià di Persia. Ultima regina e imperatrice consorte del moderno Iran • «Era la Jackie O. iraniana» (Tina Brown, Rep 19/06/2009) • «Faceva sognare il mondo con la sua bellezza, il suo charme e le sue ricchezze» (Alberto Toscano, Giornale 23/2/2009) • Sposò Mohammad Reza Pahlevi nel dicembre 1959 con una cerimonia da mille e una notte. Fu la sua terza e ultima moglie (dopo la principessa egiziana Fawziiyya e dopo Soraya Isfan dyarī, entrambe ripudiate per non essere state in grado di dargli un erede maschio). Ammiratissima per il suo fascino, il suo stile e il suo calore umano. Da imperatrice chiamò a corte, perché la consigliassero, Andy Warhol, Henry Moore e Arnaldo Pomodoro. Collezionò opere di Degas, Picasso, Pollock, Bacon e Warhol (il Financial Times parla di 1500 opere, almeno tre miliardi di dollari di valore). Dopo la Rivoluzione islamica del 1979, condivise il destino del marito e abbandonò per sempre l’Iran vestita Valentino. Condannata a morte in contumacia dagli ayatollah, visse esule spostandosi da un Paese all’altro (Egitto, Marocco, Bahamas, Messico, Stati Uniti). Rimasta vedova nel 1980, passa i suoi giorni tra la sua casa di Washington e quella di Parigi, affacciata sulla Senna. «Oggi mantiene il fascino di ieri: alta, regale, i capelli stretti in una coda da un fiocco di gros grain» (Enrica Roddolo, Lettura 18/3/2018). Non si capacita delle condizioni in cui è ridotto il suo Paese: «Ma come si è potuti passare da Ciro il Grande a Khomeini? È incredibile!». E, quando ricorda il suo primo incontro con lo scià, le si illuminano gli occhi. «Che cosa la conquistò dello scià? “Il sorriso, bellissimo. Ma i suoi occhi erano tristi”».
Titoli di testa «La cameriera socchiude la porta e con cenno rapido della mano mi invita ad alzarmi: “Madame Diba sta per arrivare”. E poco dopo, da un altro ingresso, appare una figura in nero, con i capelli raccolti. Sorride e tende, cordiale, la mano. Niente etichetta, nessun formalismo. L’ex imperatrice è vestita in modo sobrio, non ostenta corone o brillanti: unici gioielli, una sottile catenina d’oro e un bracciale. Per il resto, una grande umanità e tanta voglia di comunicare le sue ansie, i suoi timori. E di abbandonarsi ai ricordi. “Vivere in esilio è la cosa più terribile che possa accadere”» (Guido Olimpio, CdS 13/2/1995).
Vita Famiglia altolocata, ma non ricchissima. Il padre, colonnello Sohrab Diba, educato all’Accademia militare di Saint-Cyr, vicino a Versailles, in Francia, muore di cancro quando lei è ancora bambina. La madre, Aridah Ghotbi, deve fare non pochi sacrifici per mantenere agli studi quell’unica figlia • «“A Teheran, quand’ero molto piccola, frequentai per un paio d’anni la scuola italiana, credo gestita da suore italiane e gesuiti, prima di passare alla scuola francese Jeanne D’Arc”. Ricorda qualche parola di italiano? “Oh no, ero piccola e in realtà a scuola insegnavano il francese e il persiano. Per la verità mia madre mi iscrisse lì perché avevano un bel pianoforte, voleva che studiassi musica ma a casa il pianoforte non c’era, e così mi esercitavo su quello della scuola […] Sono stata fortunata, sono stata cresciuta in modo moderno: mia madre, più di sessant’anni fa, mi fece fare la scout, praticare nuoto, giocare a basket. Ero capitano della squadra, numero 10, come Baggio e Maradona”» (Roddolo) • La prima volta che Farah vede il suo futuro marito marito ha solamente otto anni: «Fu un momento straordinario. Era un momento molto importante anche per il Paese, lo scià aveva appena ottenuto la libertà dell’Azerbajian, invaso dalle truppe dell’Unione Sovietica. Aveva sul capo un’aureola di gloria, e la folla era scesa nelle strade per ammirarlo e applaudirlo» • Si incontrano per la seconda volta nella primavera del 1959, all’ambasciata iraniana a Parigi. Lei ha venutno anni, è studentessa di architettura. Lui è in Francia per una visita di Stato e vuole conoscere gli studenti iraniani più brillanti della capitale francese. «Più tardi, mi dissero che lui mi aveva seguita con lo sguardo mentre uscivo dalla stanza» • Secondo i giornali dell’epoca, all’origine di questa storia d’amore, c’è una borsa di franchi francesi. La giovane Farah Diba ne ha bisogno, se vuole continuare a studiare a Parigi. Così, durante una vacanza a Teheran, alcuni amici le consigliano di rivolgersi al generale Àrdeshir Zahedi, responsabile degli interessi degli studenti persiani all’estero, nonché marito della principessa Shahnaz, nata dal primo matrimonio dello scià. Il quale, non solo promette di procurarle il denaro che le occorre, ma decide di invitarla a colazione e di presentarla a sua moglie. Caso vuole che la giovane principessa da tempo sia alla ricerca di una buona moglie per il padre. Soraya non le è mai stata simpatica, la considera nervosa e malinconia, pensa che al quarantenne genitore occorra una donna più giovanile e gaia. Insomma: da cosa nasce cosa. Gli inviti a Palazzo si fanno sempre più frequenti, favoriti dalla complicità della principessa Shahnaz. Risultato: a inizio luglio, quando Farah Diba riparte per Parigi, l’imperatore ha dimenticato Soraya. Il suo cuore e la sua mente appartengono ormai alla leggiadra studentessa • «Questa cronaca salta ora al 18 ottobre, festa dell’aviazione persiana. Quel giorno, lo Scià si recò, come ogni anno, all’aeroporto di Teheran e passò in rivista i combattenti iraniani dell’aria. Poi, quando tutti si aspettavano che rientrasse a palazzo, fece chiamare Farah Diba e la invitò a salire sul suo elicottero privato. Il sovrano si mise ai comandi dell’apparecchio e, in pochi istanti, la portò fra le nuvole, lontano da tutto e da tutti. Cosa avvenne a questo punto? II monarca si voltò verso la fanciulla che sedeva, un po’ meravigliata, al suo fianco, e le domandò: “Vuole sposarmi?”. Ella rispose: “Sì”, poi si mise a ridere, gettò le braccia attornio al collo del pilota e lo baciò» (Sta 1959). Racconterà lei anni dopo: «Non c’era da riflettere. Non avevo riserve. Era sì. Lo amavo. Ero pronta a seguirlo» (Giampiero Martinotti, Rep 12/10/2003) • A fine ottobre, Farah Diba compie il suo ultimo viaggio da nubile. Di nuovo a Parigi, per preparare il corredo. Lo scià ha aperto per lei un conto illimitato presso Christian Dior, di modo che la sua giovane fidanzata possa scegliere tutto quello che vuole. All’arrivo all’aeroporto di Orly, la attendono un centinaio di cronisti e fotografi, alcuni arrivati appositamente da Londra e da altre capitali europee. La stampa prova a tenderle delle trappole di continuo, ma una zia Ghotbi e un generale persiano vegliano su di lei e non permettono a nessuno di avvicinarsi. I giornali francesi scrivono che la ragazza è «alta, esile, bruna, pettinata secondo i canoni della moda di Parigi». I giornali iraniani scrivono che i Diba discendono dall’antica famiglia dei Khadjars, che regnò sulla Persia per più di sei secoli. Il 26 ottobre, mentre in Iran grandi feste popolari celebrano il quarantesimo compleanno dell’imperatore, a Parigi Farah Diba riceve centinaia di telegrammi. «Ce n’era uno fra gli altri, firmato da una donna qualunque, una povera donna di Teheran, senza relazioni alla corte, che diceva: “Farah, non dimenticare che entro un anno devi dare un erede maschio alla corona”. In quelle poche parole, che esprimevano i sinceri voti di tutta la popolazione, erano spiegate in una forma ingenua le ragioni di Stato delle affrettate nozze […]. Alla fine del 1960, infatti, ricorrerà il 2500° anniversario della monarchia iraniana, fondata da Ciro il Grande, e Mohamed Reza Pahlevi vuole farsi incoronare in quella occasione. Soltanto cosi potrà consolidare il trono, minacciato dalla lotta degli interessi petroliferi, ma le leggi del Paese prescrivono che lo Scià non può essere incoronato se non ha un erede maschio» (Sandro Volta, Sta 30/10/1959) • Il 23 novembre 1959, fidanzamento ufficiale. Cerimonia nel palazzo imperiale di Teheran. Appena un centinaio di invitati (una cerimonia intima, considerati gli usi cui la corte è abituata). Farah giunge a palazzo su una limousine nera, indossa un abito bianco e viene fatta passare tra due siepi di cesti di fiori. Reza Pahlevi indossa l’uniforme di comandante supremo delle forze armate. Lei si lascia infilare l’anello di fidanzamento al dito come da protocollo, lui, che detesta gli anelli, il suo, se lo mette in tasca. A tutti gli invitati sono offerti i tradizionali dolci. Quando vengono fatti entrare i fotografi, uno di loro, maldestro, inciampa in un tappeto ruzzolando a terra con tutto il suo armamentario. Lo scià ride di cuore, trascinando nella sua allegria l’emozionata fidanzata. È felice. La sua prima moglie, Fawzia, gliel’aveva fatta sposare il padre quando era ancora un ragazzo perché in quel momento sembrava utile al Paese che la futura imperatrice fosse sorella del re d’Egitto. Soraya, l’aveva scelta il primo ministro perché apparteneva a una potente tribù nomade che bisognava legare a qualunque costo alla dinastia dei Pahlevi, che molti persiani considerano ancora degli usurpatori. Stavolta, la politica non ha avuto peso • Le nozze vere e proprie hanno luogo il 21 dicembre. Tremila invitati. La sposa giunge a palazzo su una Rolls Royce completamente foderata di bianco. Il rito è molto semplice, ma suggestivo. I due fidanzati siedono l’uno accanto all’altro di fronte a un grande specchio, «lo Specchio della Fortuna». Rimangono immobili per qualche istante, «per permettere alle loro immagini di incidersi definitivamente nella memoria». Dopodiché un sacerdote chiede a Farah Diba: «Siete pronta a sposare Sua Maestà l’Imperatore?». La domanda è ripetuta tre volte. Poiché, a una giovane casta, non si addice dimostrare impazienza il giorno delle nozze, Farah Diba risponde «sì» soltanto alla terza volta. A questo punto, la regina madre, per esprimere l’approvazione della famiglia imperiale, rovescia sulle spalle dei due fidanzati gioielli e pietre preziose contenute in uno scrigno. È fatta. Auguri. Fuochi d’artificio. La popolazione iraniana danza per le strade fino all’alba. Tutti i Paesi del mondo inviano doni: Charles De Gaulle manda agli sposi un servizio di cristallo, Giovanni Gronchi un servizio da toilette in pelle di serpente, la regina Elisabetta un grande vaso vermiglio, il presidente del praesidium dell’U.R.S.S. maresciallo Vorošilov dei tovagliati tessuti vari secoli prima in Russia e ricamati da monache di clausura del diciottesimo secolo, il presidente della Guinea una statua d’avorio intarsiato d’oro, il presidente del Pakistan un «servizio da sella» in oro e pietre preziose appartenuto all’ultimo grande imperatore Mogul (comprendente due borracce per il tè e per l’acqua, un cofanetto per dolci, un nécessaire da scrittura con calamaio portatile in avorio, il tutto chiuso entro bisacce di cuoio intarsiato d’oro) • Dopo nove mesi, il 31 ottobre 1960, Farah Diba dà alla luce un erede maschio. Reza Ciro Pahlavi. La nascita dell’erede al trono dei Pavoni è salutata con quarantuno colpi di cannone a salve. Quasi contemporaneamente, la radio di Teheran interrompe le trasmissioni per dare il primo comunicato ufficiale: «Per grazia di Allah, l’Iran ha ora un erede reale». Seguono le note dell’inno nazionale. Una folla immensa si raduna fuori dai palazzi imperiali. Nei quartieri popolari, in segno di ringraziamento, vengono sacrificati agnelli e capretti. Dall’alto dei minareti, i muezzin chiamano i musulmani alla preghiera. Poco più tardi, lo scià, accogliendo le insistenti richieste dei giornalisti, rilascia alla stampa una dichiarazione brevissima. «Ringrazio Allah onnipotente per questa grande benedizione. Ho sempre saputo che avrebbe esaudito le mie preghiere». Ha gli occhi sfavillanti di gioia.
Figli Ne ebbero quattro. Il principe ereditario Reza Ciro Pahlevi (n. 1960). La principessa Farahnaz Pahlevi (n. 1963). Il principe Ali Reza Pahlavi (1966-2011). La principessa Leila Pahlevi (1970-2001).
Rivoluzione «Qual era il vostro rapporto con la religione? Il clero iraniano in fondo è stato uno dei grandi fautori della rivoluzione islamica. “Il Re era credente, anche se non praticava la religione intensamente, non pregava cinque volte al giorno e non digiunava nel mese di Ramamdan. Ha avuto una buona relazione con il clero per anni. La relazione si è però incrinata dopo la Rivoluzione Bianca, con la riforma agraria e la modifica della situazione della donna”» (Francesco De Leo, Sta 4/2/2019) • «Lei scrive che, approvata la vostra “Rivoluzione bianca”, un religioso sconosciuto, Ruhollah Khomeini, con deferenza scrisse al re per protestare contro il diritto di voto alle donne. Cominciarono le proteste dei mullah fino all’arresto di Khomeini, poi l’esilio in Iraq, dove anni dopo affermò che il suo movimento “aveva bisogno del sangue dei martiri”. Infine calò dal cielo in aereo da Parigi per instaurare la rivoluzione islamica... “La ‘Rivoluzione bianca’ si chiamava così perché da principio non c’erano stati morti. Lo Scià voleva far uscire l’Iran dal sistema feudale, scontentando i grandi proprietari terrieri e i religiosi che possedevano notevoli proprietà e perdevano potere. Erano contro il diritto di voto alle donne, contro la libertà dal chador”» (Fiorella Minervino, Sta 7/12/2003) • Spiega Sergio Romano: «Per molti aspetti Mohammed Reza appartiene alla piccola cerchia di quegli uomini di Stato che cercarono di rinnovare secondo modelli occidentali i costumi politici e civili delle società musulmane: Mohammed Ali, fondatore dell’Egitto moderno, il padre Reza, fondatore dell’ultima dinastia iraniana, il grande Kemal Atatürk, creatore della Turchia moderna, e per certi aspetti persino Saddam Hussein […]. Ma non aveva, a differenza del padre e di Kemal, la tempra del combattente, il rigore strategico, lo stile puritano del potere. Amava lo sfarzo della corte, le uniformi sgargianti, le villeggiature a Saint Moritz e le stravaganti feste imperiali con cui celebrò nel 1971 l’improbabile discendenza dello Stato iraniano da quello di Dario e di Ciro. L’improvvisa ricchezza accumulata dall’Iran dopo il grande shock petrolifero del 1973 gli dette un eccitante sentimento di potenza. Nel suo bel libro sulla rivoluzione iraniana, Ryszard Kapuscinski ricorda che lo Scià cominciò a promulgare centinaia di decreti con cui ordinava di raddoppiare gli investimenti, importare prodotti di alta tecnologia, incrementare le spese militari, realizzare grandi infrastrutture. Verso la metà degli anni Settanta Teheran era la meta preferita di industriali, finanzieri, sensali d’affari. Ma il denaro speso con tanta leggerezza strappò i contadini alle campagne, creò un inquieto proletariato urbano, provocò una irresistibile spinta inflazionista, alimentò la piaga della corruzione ed ebbe l’effetto di rendere ancora più intollerabile il divario fra le condizioni dei diversi ceti sociali. I metodi repressivi della Savak esasperarono ulteriormente la rabbia popolare. Le manifestazioni di protesta non furono soltanto religiose, ma il clero sciita seppe prenderne la guida» (CdS 1/8/2009) • Racconta ancora Farah Diba: «Comunisti e repubblicani si allearono con i religiosi. Lo scià la chiamava “la maledetta alleanza d rosso e nero”. Alla guida della quale, si mise Khomeini, che ormai tutti – compresi gli studenti, compresi gli operai – consideravano un santo. La stampa straniera scrisse che “era il trionfo dello spirito sulla materia”. “Il Santo” predicava la libertà, la fine dell’imperialismo occidentale, la redistribuzione dei ricavi del petrolio: ognuno avrebbe trovato un’auto davanti alla propria casa. Mio marito invece sosteneva che il Paese doveva prima uscire dall’analfabetismo, andare poco a poco verso la democrazia. Non si diventa democratici da un giorno all’altro» (Minervino) • Lo scià, minato dal cancro che lo avrebbe ucciso, è affaticato e dimagrito. «Nelle ultime settimane, malgrado la legge marziale, ogni notte i manifestanti riuscivano a salire sui tetti, sfidando i militari, e le loro grida di odio arrivavano fino a Palazzo. ‘Allah è grande, morte allo Scià’. Avrei voluto proteggere il re dagli insulti». I suoi consiglieri sono divisi: alcuni gli suggeriscono di trattare, altri gli dicono che deve ordinare all’esercito di sparare sulla folla. «Mio marito rispondeva che un sovrano non può salvare il suo trono con il sangue dei suoi connazionali. Un dittatore sì, non un sovrano» (Martinotti) • Così, si arriva al 16 gennaio 1979. «Quando ripenso a quel mattino, il dolore mi stritola il cuore, intenso, intatto. Un silenzio angoscioso era sceso su Teheran, come se la nostra capitale, a ferro e a fuoco da mesi, trattenesse all’improvviso il respiro». Lo scià e la moglie vanno all’aeroporto, salgono sul Boeing 727 che li porta verso l’esilio. Ai piedi della scaletta, ci sono il primo ministro Sciapur Bakhtian, il ministro di corte Ardalan, il presidente della Camera Djavad Said. Lei: «Arrivato alla passerella, il re si girò e il piccolo gruppo che ci scortava restò immobile. Di questo faccia a faccia conservo la memoria di un’emozione insostenibile». Scrive Bernardo Valli: «I pochi giornalisti iraniani ammessi nel recinto dell’aeroporto hanno descritto Reza Pahlevi e Farah Diba pallidi, tesi, vestiti con abiti sobri. Rispettando la tradizione, lo scià e la moglie sono passati sotto il Corano, tenuto da un cortigiano per augurare buon viaggio. Prima di salire sull’aereo, il sovrano avrebbe afferrato il libro sacro dell’Islam e l’avrebbe baciato, trattenendo a stento le lacrime» (Rep 17/1/1979).
Dolori Mohammed Reza Pahlevi morì nel luglio 1980, stroncato da una macroglobulinemia di Waldenström (un tipo di tumore affine al linfoma non Hodgkin), di cui soffriva da anni.
Dolori/2 La principessa Leila fu trovata morta l’11 giugno 2001 a Londra, dopo «una lunga depressione». I giornali parlarono di un’overdose di farmaci.
Dolori/3 Anche il principe Ali Reza si suicidò nel 2011 nella sua casa di Boston. La famiglia pubblicò un comunicato: «Come milioni di giovani iraniani, Alireza era profondamente turbato dai mali che affliggono la sua amata terra, così come dal peso di aver perso un padre e una sorella in giovane età».
Vizi Le sigarette. Ne fuma tantissime (Olimpio, 1995).
Curiosità Sue passioni: musica, pittura, scultura • Andy Warhol le fece un ritratto, fatto a pezzi dopo la Rivoluzione • Lettrice di Ken Follett • Le sue memorie hanno venduto 250 mila copie (a Teheran, il libro è andato a ruba al mercato clandestino) • Passa negli Stati Uniti quattro mesi all’anno (due in primavera, due in autunno). Il resto del tempo, a Parigi • Affezionata alla Biennale di Venezia • Le piacciono Caruso e Pavarotti • Ha un cagnolino («Me l’ha regalato mia nipote Noor... il cane che mi ha fatto compagnia per 17 anni è morto tempo fa e non avrei avuto il coraggio di prenderne un altro») • Ha imparato a usare i social per comunicare con i giovani iraniani • Ha mantenuto i rapporti con le altre famiglie reali. Partecipò al funerale di Maria José di Savoia • Tiene in casa i ritratti del presidente egiziano Anwar Sadat e del re del Marocco Hassan II, due che non le hanno mai voltato le spalle («Se cadi, perdi molti compagni e devi aspettarti il tradimento. Attorno a me ho visto tanti Bruto») • Su un tavolino in salotto tiene un blocco di asfalto dipinto di verde, reliquia della rivoluzione verde del 2009 («Me l’hanno mandato dall’Iran, così verniciato è un’opera d’arte») • Contraria all’inasprimento delle sanzioni occidentali contro l’Iran, perché colpirebbero soprattutto il popolo • Sogna che l’Iran diventi una democrazia laica, retta da una monarchia costituzionale su modello scandinavo • Suo figlio Reza Ciro, che oggi gestisce gli interessi della famiglia, pensa che tocchi agli iraniani scegliere liberamente se vogliono una monarchia o una repubblica • Suo marito è sepolto dentro una tomba monumentale di onice verde, nella moschea di Al Rifa’i, al Cairo, dove riposa anche re Faruq • Spera di rivedere l’Iran prima di morire • Anche se gli ayatollah non hanno mai revocato la condanna a morte, lei dice di non avere paura. «Meglio morire così, colpita a morte, che di cancro... in ospedale».
Titoli di coda «Perché io? Anni dopo le nozze, lo domandai a mio marito. Rispose: “Mi sei piaciuta perché eri vera, autentica”» (Roddolo).